Non sono numeri: Musa

Musa  ha 17 anni. E’ arrivato dal Gambia nel 2014, dopo un viaggio che lo ha portato in Libia attraverso il Senegal, il Burkina Faso e la Nigeria. Oltre la Libia, il mare. Affrontato su un barcone soccorso da una nave della Marina.

Musa. Per molti, solo un numero. Uno dei 180 mila che come lui nel 2014 hanno compiuto una scelta che poteva essere l’ultima. Uno dei tanti bambini che hanno abbandonato la propria casa per affrontare il deserto, i trafficanti di uomini, la sete, le incarcerazioni, le violenze e i soprusi più inimmaginabili, per arrivare a una barca o a un gommone, con la speranza che non diventassero una bara. Uno dei tanti che, prima di affrontare il mare, hanno affrontato il deserto. Contrariamente a quanto si è soliti pensare, il loro viaggio, o meglio, la loro fuga, non inizia in acqua. Molti di loro affrontano viaggi di anni, prima di giungere al luogo di imbarco. Molti di loro non ci arrivano neanche. Partono bambini per arrivare uomini. Uomini senza ancora la barba. Uomini adolescenti.

Oggi Musa ha 17 anni. Una timida barba copre parzialmente un viso che nulla ha del bambino. Quel bambino è rimasto in Gambia, dove un dittatore impedisce alla gente di vivere dignitosamente. “In Gambia se parli male del presidente ti arrestano, o peggio. Se scappi, possono prendersela con la tua famiglia” ci spiega Musa con una voce ormai da adulto. Non un tentennamento, non un tremore. Racconta con una compostezza inverosimile avvenimenti cui è difficile credere. Ci racconta della sua esperienza di viaggio, con dettagli che rendono incredibile il fatto che lui, come altri, ce l’abbia fatta: “la Nigeria è un posto in cui fanno le cattiverie: ci trasportano su dei tronchi di albero incastrati nei pickup. E non ti puoi muovere. Devi restare in equilibrio perché, se ti muovi, ti feriscono con i coltelli o ti sparano e ti lasciano nel deserto. La notte si portano le donne da qualche parte e fanno le loro cose. E tu non puoi fare niente. Non ti puoi ribellare.” Tiene le braccia conserte durante il suo racconto, come a voler trattenere una rabbia che è stanco di provare. Ogni tanto si lascia andare, e mima gesti e azioni ancora troppo vivi nella memoria per essere frenati. “In Nigeria, siamo arrivati in un piccolo villaggio in cui non c’era niente. Ci hanno lasciati 3 giorni. Senza mangiare, senza acqua. A dormire sulla sabbia. Pensavamo di morire. Nel villaggio abbiamo incontrato i genitori dell’uomo che ci trasportava, e ci hanno detto che sarebbe tornato. Era andato a fare un altro viaggio. Era andato a prendere altre persone, a fare altri soldi. Noi siamo solo soldi, non siamo persone. E’ un traffico”. Musa descrive il tutto con una terminologia quasi tecnica. “E’ un traffico” ci spiega. E’ un meccanismo ben collaudato da anni di trasporti illegali. Regolato da leggi che, se infrante, portano alla morte, senza possibilità di difesa alcuna. Se disobbedisci, ti ribelli, o se solo ti muovi, sarà il deserto a pensare a te. Un traffico organizzato con inquietante precisione, con le dovute differenziazioni a seconda del tipo di ‘merce’, come ci spiega Musa: “alcuni bambini erano trafficati a parte, così come le donne. In Libia ho parlato con alcune ragazze e mi hanno detto che i maschi della Libia vanno in Nigeria, promettono ai genitori il lavoro in Libia per le loro figlie e le portano via. In Libia poi, le fanno prostituire dicendo che devono rimborsare le spese del viaggio.”

Dopo tutto questo, dopo notti sulla sabbia, giorni senza acqua e viaggi immobili in equilibrio su tronchi di legno, non è finita. Si è appena a metà strada. Manca forse l’ostacolo più grande. Dopo la sabbia, il mare.

Musa è arrivato con un barcone, ben diverso dal gommone ma, come lui stesso ci dice:  “E’ una cosa più bella, ma non è bella”. Il suo tono si fa più arrabbiato, il desiderio di dire, di raccontare, viene fuori. “Noi siamo neri e per i libici siamo merda. Nella barca, noi eravamo sotto, dove c’è il motore. A respirare la benzina. I bianchi vanno sopra”. Anche qui, impossibile essere considerati esseri umani. “Chi si ribellava – continua Musa – veniva preso a coltellate o buttato in acqua. Tutti vomitavamo. A un certo punto io sono salito sopra perché dovevo fare pipì. Non mi hanno buttato in acqua perché sapevo parlare un po’ la loro lingua e mi hanno fatto stare due minuti. Non sono riuscito a fare niente, e sono tornato sotto”. Sembra surreale la compostezza con cui questo ragazzino di 17 anni ci racconta il suo aver superato e affrontato il totale annullamento di ogni diritto umano. Un’adolescenza iniziata nel sangue altrui, nel vomito, tra puzza di benzina e paura di non vedere più il sole. “Ci ha recuperato la Marina. Siamo stati fortunati”. L’aggettivo ‘fortunati’ quasi stona con una storia che di tutto sa, fuorché di fortuna. Ma ora Musa è qui. Frequenta l’istituto alberghiero ‘Antonello da Messina’ insieme ad Yvan Djoko, anche lui arrivato qui nel 2014. Pensa al futuro Musa, con una determinazione da fare invidia ai suoi coetanei, e non solo. E’ uomo da anni. Lo dicono i suoi occhi, così come le sue mani. Lo dice la sua voce. “Devo ringraziare la preside di questo istituto. Se penso al futuro posso solo pensare che sia meglio del passato. Penso che quello che sto facendo ora è giusto. Vado a scuola, imparo, costruisco qualcosa. Ogni tanto incontro altri ragazzi venuti in Italia come me, e a nessuno piace andare a scuola. Molti pensano che sia una perdita di tempo. Ma se io sono venuto qua, non è per fare un lavoro nero, ma un lavoro VERO. Io rispondo che qua devi creare una base per il tuo futuro. Penso che avrò un futuro che mi farà essere soddisfatto”.

E noi te lo auguriamo Musa. Te lo meriti tutto!

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GS Trischitta