Fino a pochissimi mesi fa Messina era la metafora di un boccale vuoto. Il boccale richiama alla memoria la tradizione della nostra terra, quando un marchio ,quello della birra Messina, era sinonimo di appartenenza, industria credibilità. Questa era la situazione prima che ai lavoratori si presentasse il nuovo corso: licenziamenti e chiusura dello storico stabilimento, fiore all’occhiello di un’intera città. Dalla chiusura al presidio permanente il passo è stato breve ma anche più deciso. Gli operai sono scesi in piazza per reclamare i propri diritti e gridare la propria voglia di riscatto. Questa insomma può sembrare una vertenza come tante che attanagliano e hanno piegato la città dello stretto ma non lo è. Perché questa ha il sapore della vittoria e restituisce l’audacia dell’incoscienza di sedici operai che hanno messo da parte il luccichio degli ammortizzatori sociali, per dare vita nuovamente ad una birra made in Messina. “Dopo la brutta notizia dell’ex amministratore delegato dell’avvenuto licenziamento- ci hanno raccontato gli ex operai- abbiamo cominciato un presidio permanente che non è ancora finito. In questo anno siamo stati impegnati su più fronti per reclamare i nostri diritti ma soprattutto per rivendicare la nostra dignità di uomini e di lavoratori. Il prefetto e l’ufficio provinciale ci hanno mostrato tutta la loro vicinanza. Lo stesso presidente della Regione Rosario Crocetta aveva dichiarato che avrebbe supportato la nostra causa, perché lo stabilimento di questa città rappresenta un patrimonio storico. La palla era passata poi passata a Linda Vancheri, assessore alle attività produttive. Il problema poi- come è noto- è stata la chiusura totale da parte del dottor Faranda che non ha fatto nessun passo indietro rispetto alle decisioni prese”.
Ma per gli ex lavoratori della birra Messina, il posto di lavoro rappresentava una filosofia di vita tanto che spesso volutamente decidevano di restare oltre l’orario lavorativo per sperimentare nuove ricette, sistemare le macchine e programmare il lavoro del giorno dopo. Ed è così che qualcuno spendeva 18 ore su 24 tra quei muri, consapevoli di essere testimoni ed eredi di una grande storia come racconta Domenico Sorrenti: “Noi siamo legati in maniera viscerale alla produzione della birra a Messina. In questa tradizione ci sono tre generazioni che hanno creduto nel proprio lavoro e nel potenziale di questa città”. Ora però i lavoratori sono scesi dalla barricata e vogliono dare un segnale forte a questa città, ma soprattutto alle istituzioni le stesse che dovrebbero tutelare il cittadino. Ed è così che l’operaio cerca di inventarsi un nuovo destino, investendo i soldi del TFR per creare un nuovo birrificio che dovrà sorgere a Larderia. “Noi abbiamo costruito, studiato e vagliato-prosegue nel racconto Domenico Sorrenti- un piano finanziario che farà risorgere nuovamente un polo industriale. I prezzi per gli impianti ammontano a circa 800.000 euro. L’unico aiuto dovrebbe venire dalla Regione che ci ha promesso di darci in concessione i capannoni. Quindi quando avremo i documenti ufficiali firmati da Rosario Crocetta, ci presenteremo alla Clia dove offrono finanziamenti artigianali e consegneremo i soldi del TFR per costruire un nuovo futuro. Se tutto procede bene e non saremo vittime della burocrazia ,che spesso tarda a dare risposte, saremo in grado il primo giugno del 2014 a presentare alla cittadinanza la prima bottiglia di birra. Abbiamo stimato che nel lungo periodo possiamo produrre fino a 23.000 ettolitri di birra”. La storia degli ex operai sembra quasi l’evoluzione del pensiero marxista ma nella voglia di riscatto di questi sedici operai c’è prima di tutto il desiderio di ricostruire delle radici solide in questa città che sta pagando il prezzo della mala politica e di un’apatia imperante che non permette di cambiare lo status quo. Un sentimento che stride con l’amore per la città, lo stesso che animava Francesco Faranda nei primi anni del secolo scorso:” Nel 1915 c’era Francesco Faranda, il nonno dell’ultimo proprietario. Allora si faceva tutto manualmente anche l’imbottigliamento. Nel 1923 ha deciso di dare un marchio al prodotto chiamandolo “Nuova birra Messina”. Lavoravano circa 280 persone e il primo proprietario ha portato il marchio in tutta la Sicilia. I figli hanno continuato a portare avanti la fabbrica, producendo ettometri di birra tanto che la Dreher si è interessata. I problemi sono nati quando Guido Faranda è morto proprio dentro la stabilimento. Lui era anche un padre di famiglia. Mi ricordo che quando sono stato assunto mi mancavano cinque milioni di lire per comprare la casa. Lui ha preso i soldi e me li ha prestati. Io poi li ho restituiti quando ho potuto. Vi racconto questo episodio per farvi capire che Guido Faranda prima di essere un imprenditore era un uomo e un padre di famiglia”. Il racconto dei lavoratori ad un certo ci porta indietro nel tempo quando quello stabilimento era anche una fucina di idee ed esperimenti che ammaliavano i sensi dei passanti” Si cercava il miglior orzo e il miglior malto. I chicchi di orzo venivano selezionati a Messina per poi essere seminati nei campi di Siracusa e di Gela”. Il progetto che vede la città dello Stretto rappresenta certamente un’impresa di grande spessore vuoi per i rischi che i lavoratori corrono in prima persona vuoi per la credibilità di una città che fatica a trovare respiro da tutti i punti di vista. Per questo tutti i cittadini e tutta l’amministrazione deve fermarsi a riflettere sulla metafora del boccale vuoto che ha finora contraddistinto questa vertenza cittadina, che è solo il microcosmo rappresentativo di un malessere che si respira nell’aria, nei gesti e nei sogni di tanti giovani ragazzi costretti a cercare un posto al sole altrove. L’idea che però anima il birrificio Messina è proprio quello di staccarsi dalla logica della rassegnazione, dell’abnegazione e del silenzio per cercare di dare una scintilla ad un economia che muore ogni giorno. L’obiettivo, quindi, ambizioso è quello di far tornare a parlare di questa città partendo proprio dal valorizzare le nostre risorse:”Ci sarà anche l’orzo perché c’è qualche azienda che produce. Noi ci mettiamo la manodopera e l’acqua. Questa città sta morendo. Ringrazio questo sedici persone per il coraggio che mi stanno dando. Vorremmo che la gente capisse che produrre una birra è un vanto in tutto il mondo. La nostra cooperativa richiama la nostra cultura già nel nome”. Le nostre domande ora sono rivolte all’amministrazione e alle istituzioni e al singolo cittadino. Le istituzioni perché rappresentino nelle sedi giuste i lavoratori, al singolo cittadino perché recuperi il senso di appartenenza e l’amore per questa città che potrebbe risorgere a partire da un bicchiere di birra.
Claudia Benassai