Il telefono squilla, nel frattempo scorro una scheda che lo descrive.
Sebastiano Nino Fezza, 58 anni, ortonese, da più di 30 anni video reporter Rai. Ha lavorato con Santoro, Minoli, Vespa, con Floris per Ballarò e per altre decine di trasmissioni di giornalismo d’inchiesta. In questi anni ha riportato testimonianze da 17 diversi conflitti nel mondo.
Per 17 volte testimone oculare di ferocia, disperazione e sangue.
“Non sono 17! 16 bis, sono scaramantico”
Risponde dall’altro capo del telefono, seppur impetuosa, la voce rassicurante di Sebastiano.
Diamoci del tu.
“Ho visto due guerre per conflitto. Una viaggia sul filo conduttore che unisce tutte le guerre del mondo, il fronte ufficiale, che intreccia la geopolitica e l’interesse, fortemente legato alle strategie militari, ai soldati.
Poi c’è la guerra degli ultimi, dove a morire non sono i militari, che in qualche modo sono protetti, per lo meno armati, a morire è la gente che la guerra non l’ha voluta, l’ha solo subita. La guerra di chi si nasconde, di chi scappa e come succede in Siria, si rifugia in paesi limitrofi. Di chi ha speso una vita intera per costruire una casa, ce l’ha lì sotto gli occhi e la vede distrutta. Di quei fantasmi disperati che cercano di restare il più vicino possibile a quel poco che gli è rimasto.”
Cosa ti ha spinto in Siria la prima volta?
“Il silenzio. Era un angolo del mondo rimasto al buio ed io volevo parlarne. Sono un abruzzese e come tutti gli abruzzesi ho la testa dura. Dalla mia pagina facebook, NINO Fezza cinereporter, è nato un grosso movimento di sensibilizzazione, ho scritto 1600 post, da due anni e mezzo tutti i giorni. Perché voglio raccontare.”
Raccontami degli eserciti.
“Sono uomini blindati, troppo distanti dalle realtà del territorio. L’esercito non dona giubbotti antiproiettile e patatine ai bambini, l’esercito combatte, l’esercito è l’invasore. E da tale viene percepito. L’efferatezza dell’uomo poi. quando sopraggiunge, lo rende simile alla bestia e gli esodi di ragazzi per soddisfare le esigenze sessuali dei militari non sono chiacchiere. Certe cose succedono davvero.”
Raccontami delle donne.
“Esistono luoghi e tempi in cui la guerra per le donne diventa un valore aggiunto, quasi un pretesto liberatorio. Ricordo quando arrivai in Afghanistan, tutte le donne che incontravo all’inizio portavano il burqa, a distanza di due, tre anni almeno la metà camminava senza. I conflitti di cui parliamo avvengono o nei paesi arabi o nel sud del mondo, dove la condizione della donna è determinata da una ideologia che ha basi culturali e religiose molto discriminanti, ma non credo che ciò le renda deboli e sottomesse, anzi, le donne tutte, sono “da medaglia”.
Ogni donna se madre deve fare da collante, deve badare al sostentamento della famiglia, del marito, soprattutto se è un ribelle, se combattente. Spesso è anche colei che seppellisce i figli. Ciò che per noi è un’immagine contro natura in alcuni luoghi è la consuetudine.
In un ospedale africano vidi arrivare una madre portare in braccio suo figlio, in fin di vita, la scena è sempre la stessa, i primi minuti la mamma piange, si dispera, poi arrivano i becchini lo prendono e lei lo guarda andar via, prende l’altro figlio si gira e se ne va. Il rapporto che hanno con la morte è lontano dalla concezione drammatica che abbiamo noi, che non dimentichiamolo mai, siamo i fortunati, non moriamo di fame, abbiamo appetito, non ci terrorizza il futuro, ne abbiamo timore. Ogni madre deve sopravvivere, deve farlo per se stessa e per il resto della famiglia. C’è un vecchio proverbio africano che dice che ‘il mondo cammina sulle gambe delle donne’, nulla di più vero. “
Qual è il quadro generale e l’idea che ti sei fatto del dissidio siriano?
“Non c’è un accordo di internazionali per porre fine a questo maledetto conflitto. Troppa confusione, concordati falliti. Sono due giganti che si prendono a spallate, Occidente contro Oriente. In mezzo ci sta la Siria e i Balcani che ne pagano le conseguenze.
Le guerre possono partire con tutte le buone intenzioni del mondo, anche questa è partita come una rivoluzione pacifica, dal popolo e del popolo, finchè si perde il controllo della situazione, ci sono interferenze di gruppi politici, di gruppi paramilitari, di gruppi armati. Il regime di Assad, Al Qaeda, poi l’esercito libero, gli interventi moderati, c’è un immane caos che rende impossibile individuare una leadership in maniera tale che si possa discutere con un futuro governo, così il conflitto si allunga e la gente muore. ‘Si stava meglio quando si stava peggio!’ sento dire, e mi domando se rischieremo di fare 150 mila morti, 11, 12 mila bambini per tornare allo status quo.”
Quanto di quello che hai vissuto in prima persona sei riuscito a trasmettere attraverso il tuo obiettivo?
“Spesse volte è impossibile stabilire un rapporto di sincera fiducia, e con la gente e con le istituzioni. La stampa ha un ruolo tristemente strumentale all’interno di queste situazioni. Rappresenti un mezzo e da tale vieni recepito.
La telecamera coglie l’effetto di due sensi al massimo, la vista e l’udito, ma la guerra, la morte hanno un gusto un sapore, un odore. Io ho imparato a riconoscere la differenza dell’odore di sudore, un ragazzo che ha fatto sport ha un odore particolare, lo stesso in una situazione di paura, avrà un odore molto più aspro molto più forte, queste sono cose che la telecamera non percepirà mai. “
Insieme all’associazione Auxilia, Nino Fezza nel luglio 2013, imbarca alla volta dei campi profughi, a cominciare dal campo di Atma, container carichi di aiuti umanitari di ogni genere, ad oggi circa 150 tonnellate di materiali, supporto di tutta Italia, sono stati recapitati.
“Non volevo solo raccontare, dovevo rendere utile il mio operato, partii per rimettere le scarpe a Zahra, una bimba che avevo visto in foto con addosso degli scarponi troppo grandi per i suoi piccoli piedini, portai con me allora 30 tonnellate di aiuti.
Oggi non vogliamo limitarci ad assistere i campi, che nonostante le pessime condizioni, garantiscono per lo meno una tenda e un pasto. È in atto una collaborazione con Maram Foundation che ci da la possibilità di monitorare e distribuire casa per casa, famiglia per famiglia nei villaggi più a rischio, col massimo della trasparenza. Perché la solidarietà è una cosa seria, anche in tal senso serve essere professionisti, non puoi certo piombare li con un camion lungo 17 metri e mezzo! Perché fra i deboli ci sono sempre i più deboli.
Ogni spedizione ha chiaramente un costo e nonostante i prezzi stracciati che siamo riusciti ad ottenere è indispensabile organizzare raccolte, eventi e manifestazioni per concretizzare i fondi necessari. Oggi l’Italia tutta dimostra, prodigandosi in proposito, di voler rappresentare una fonte di sostegno autentico”.
Sarà mica un antidoto anticrisi?
“Forse quando ti accorgi che la tua di sicurezza comincia ad avere qualche crepa, che il terreno sotto i piedi potrebbe venire a mancarti, d’istinto sviluppi una coscienza solidale. Pensi potrebbe succedere a me”.
Giovanna Romano