Luciano Marabello
“Il presente delle cose passate è la memoria; il presente delle cose presenti è la vista; e il presente delle cose future è l’attesa.” S.Agostino Le Confessioni Libro XI
I luoghi costruiti e abbandonati sono insieme memoria, vista e attesa, sono una cruda trasfigurazione della forma, sono anche la decostruzione dello spazio di relazione vissuto e/o prefigurato, sono l’incidente e il crash, sono la cruda dissezione del corpo dell’architettura in cui affonda il coltello delle scelte consapevoli o casuali di una comunità, i luoghi abbandonati con le loro rovine contemporanee transitate nel territorio del rottame pongono gli spazi ad una nuova osservazione.
Visti da dentro sono spesso un riassunto, un tema, una parafrasi, un report, raramente un dramma, molte volte un sensore. Intorno allo spazio dell’abbandono si riconnettono le esperienze vissute, i desideri mai realizzati e persino dei legami sentimentali con quei luoghi ,rielaborati dalla forma del tempo e della distanza con un intensità superiore alla stessa modalità con cui erano vissuti al tempo dell’uso.
Quando si mette un manufatto sul tavolo operatorio con il corpo a carne viva si sostanzia nell’osservatore una componente emozionale che risucchia lo spazio, la qualità specifica e l’affezione al luogo dentro un cratere vasto e magmatico, colmo di tutto quello che interseca il corpo delle cose con il corpo della comunità, in quel cratere magmatico ci finiscono i desideri, le supposizioni, le presunzioni, tutte quelle variabili indeterminate e concrete che ,sinteticamente, potremmo definire le vite delle persone che si sono incrociate con quel manufatto sia nel tempo dell’uso, sia poi nel nuovo tempo dell’abbandono.
Il teatro in fiera occupato ha rivelato aldilà del suo stesso corpo sventrato la sintesi di una memoria di una vista e di un’attesa. Il tempo dell’attesa dilatato sui tempi estesi delle progettazioni produce il danno, l’incuria, la ferita. Ogni manufatto per resistere si manutiene, ogni cosa quindi ha bisogno di mani, ogni mano compie degli atti di cura attraverso la domanda, la scelta, la decisione e il lavoro.
In questo atto di Corpi umani che hanno occupato un ex teatro si è messa in moto una supposizione che non ha ancora trovato verifica: il teatro seppure nelle sue variazioni possibili è un edificio tipologicamente compiuto, necessita di modalità d’uso normate e con poche variabili fisiche. Il teatro invece nella sua forma non edificata e reale, quello della scrittura e della drammaturgia, è una concrezione della stessa idea di spazio, di corpo e di voce, cosicchè, occupare un contenitore che non realizza nelle sue condizioni immediate nessuna forma fruibile dello spazio è forse una negazione dell’azione del teatro e del suo possibile pubblico. Un teatro che non trova scena e non trova platea perché occupate dai suoi rottami esce dallo spazio definito della costruzione e deve trovare altrove il suo destino.
Il teatro in fiera è realisticamente inagibile, il suo uso ipotetico è legato a investimenti economici necessari che rendano possibile il riuso di un edificio che non funzionava bene già prima e che oggi per un’improvvisa sindrome affettiva tutti decantano come un luogo poetico e felice dei ricordi e dello spettacolo. Il luogo occupato pone però delle domande, sia per il moltiplicarsi di junk spaces nella città, sia per l’attitudine compulsiva e sistematica al consumo di luoghi, di risorse e di storie, sia infine alla deflagrazione della ragionevole attesa tra l’essere delle cose presenti e il suo divenire.
Il teatro in fiera o meglio il suo rudere per queste cose va disoccupato e i corpi compressi nello spazio inabitabile diffusi sull’area fieristica e nello spazio pubblico, il tema di fondo della città è sempre quello di costruire relazioni nei luoghi e immaginare spazi non come semplici contenitori ma come palinsesti di occasioni e di scritture collettive.
Lo spazio della cittadella fieristica è una trama possibile di scrittura urbana in cui fatti e desideri si possono incontrare, in cui ripensare alle modalità di composizione degli interessi.
Persino la riflessione sul tema del Comune non è a mio avviso sufficiente perché quel luogo e quall’area di sedime sono un luogo di intressi pubblici concorrenti in cui come spesso accade si intrecciano legittimi desideri privati. La natura del ragionamento è quindi che in molti interessi pubblici realizzati o programmati appaiono estranei i corpi sociali che sono costituenti l’idea di pubblico. Il pubblico si confina nelle sue procedure e il corpo sociale per incapacità e per indoleza si disinteressa, poi d’improvviso ma tardivamente scopre che le cose accadono e procedono aldilà dei corpi e dei loro eventuali desideri.
Se però il tema della città è quello dell’attenzione permanente alle trasformazioni e alle progettualità in progress allora il teatro occupato sarà servito a ricostruire una scena possibile, se invece il contenitore edificio e la sua simbologia rielaborata e rimodulata su altre occupazioni teatrali nazionali totalmente differenti saranno il solo elemento di interesse allora penso che il sipario è già chiuso. La continua immaginazione e dichiarazione di una terza via tra pubblico e privato definita nell’assemblea di ieri in fiera come la strategia del “comune” mi lascia alcuni dubbi o perlomeno sposta i termini verso l’apparire di un’altra modalità di privato che si configura come un pezzo di società , una società che potrebbe essere comune ad alcuni e che non sarebbe comune ad altri e che quindi nel palinsesto della città riproporrebbe la necessità del pubblico come terreno di equilibrio provvisorio o temporaneo degli interessi.
Il tema dell’individuazione di luoghi con organizzazione non proprietaria presume luoghi in cui non vi è immediata necessità di agibilità fisica attraverso ingenti risorse economiche, in cui la scelta di uso e di pratica del luogo sposta e ribalta la necessità proprietaria e di redditualità ma forse poiché è slegata dal termine dell’investimento economico iniziale. Insomma mi chiedo cosa evita di riconfigurare la forma di privato in una strategia del comune in cui il comune, la cosa comune, per necessità non è la totalità o il numero di un’assemblea temporanea o duttile, ma è quel comune con altri tipi di comune, quel comune con la sua ostilità e inimicizia ad altri desideri e che senza forma di ricomposizione si confronta solo su altri rapporti di forza spendibili nell’immediato meno spendibili nel tempo lungo delle città.