Oltre la cronaca, aggressione a Mannina.

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È stata una lunga, lunghissima notte per Paolo Mannina, protagonista di una vicenda che lo ha visto vittima di un manipolo di teppisti, giovani violenti in preda ad un’immotivata ma brutale smania distruttiva. L’uomo, aggredito e derubato a pochi passi dalla sua abitazione nel centro storico di Palermo, nella notte tra il 12 e il 13 Giugno, è tuttora incredulo e sbigottito. I suoi racconti, le sue parole concitate, persino il grido d’aiuto lanciato sui social network rendono manifesta la frustrazione di un cittadino indifeso, spaventato dalla sua impotenza e indignato dall’indolenza delle forze dell’ordine.

Mannina, regista teatrale da anni residente a Palermo, si è battuto affinché l’episodio venisse reso noto: non avrebbe sopportato d’altronde che l’ennesima aggressione consumata nel cuore della città venisse taciuta.

Dopo pochi giorni dall’accaduto Paolo racconta al Carrettino delle Idee l’intera vicenda, mostrandosi risentito ma affatto intimorito. La paura ha ormai lasciato spazio alla rabbia, allo sdegno: i cittadini non vengono tutelati, i controlli non sono affatto bastevoli e le autorità sono sempre meno presenti. Inerme e spaventato, Mannina ha dovuto pagare le conseguenze di simili carenze. E non sarà l’ultimo a farlo, purtroppo.

 

Puoi raccontarci com’è avvenuta la rapina e ciò che è successo dopo?

“Avevo appena terminato l’ultima replica del mio spettacolo “Il muro di silenzio” al teatro Libero e mi ero intrattenuto con gli attori in un ristorante del centro. Intorno alle due ho deciso di andar via: sulla via di casa, dopo aver imboccato una scorciatoia, ho avvertito immediatamente dietro di me la presenza di tre individui che mi stavano seguendo a breve distanza. E’ stata una questione di attimi: mi sono subito trovato con le spalle al muro, immobilizzato da due di loro mentre il terzo mi sferrava pugni in faccia, nonostante lo pregassi di non farmi del male. Alla fine, dopo essersi impossessati del portafogli e del telefono cellulare, si sono dati alla fuga. A quel punto ho atteso che si allontanassero e ho ripreso a camminare quanto più rapidamente possibile, stravolto dall’accaduto. Ma all’improvviso, in una piazzetta poco distante da casa mia, mi sono imbattuto nuovamente in colui che mi aveva derubato e picchiato: era fermo accanto ad una fontanella, in mezzo ad altra gente che con ogni probabilità si trovava lì per caso. Così, forte della loro presenza e tenendomi ad una distanza di sicurezza, gli ho gridato ‹‹ladro, delinquente, ridammi le mie cose›› ed ho invocato l’aiuto dei passanti. A quel punto il mio aggressore, sentendosi probabilmente in difficoltà senza i suoi complici, mi ha lanciato il cellulare e il portafogli, quindi se l’è data a gambe. Ma non finisce qui: dopo aver svoltato l’angolo di Via argenteria, l’uomo si è improvvisamente fermato, voltandosi minacciosamente verso di me. A quel punto, fuori di me per la rabbia, trovandomi di nuovo in pericolo, ho impugnato un asse di legno trovato per terra e l’ho scagliato contro di lui, ma senza colpirlo. L’uomo però si era ormai dato alla fuga, per fare ritorno alcuni minuti dopo con il branco di amici decisi a vendicarsi.

Il resto è cronaca, così com’è l’ho descritta su Facebook: l’incontro casuale con Pablo, che mi ha soccorso, la chiamata alla Polizia che non arriva immediatamente, il mancato intervento del 118, l’inseguimento fin dentro dell’edificio, lungo le scale.

Questi ultimi istanti preferisco non riviverli più attraverso le mie parole, proprio perché sono stati quelli più terribili: io, Pablo e mia madre, che era mia ospite quella sera, ci siamo sentiti in trappola, asserragliati, in serio pericolo di vita.”

 

Non è affatto semplice raccontare gli eventi con freddezza per chi, come Paolo, ha vissuto istanti di paura che non potrà dimenticare. Pablo, il suo compagno, sembra ancor più scosso, terrorizzato all’idea che episodi del genere possano ripetersi altre volte. I due cercano di non abbandonarsi alla paura, di non darla vinta al timore di nuove rappresaglie: significherebbe uscirne sconfitti e non è questo che vogliono.

 

Cosa ti ha spinto a scrivere quel post su Facebook proprio durante l’aggressione, asserragliato in casa, con i malviventi che picchiavano con forza per entrare? Non sarebbe stato più semplice chiedere soccorso telefonicamente, anche ad un amico?

Erano esattamente le 2.56, i miei amici erano già a letto, non mi restava che rivolgermi alle forze dell’ordine. Naturalmente ho chiamato la polizia non appena ho potuto, ma le volanti tardavano ad arrivare. A quel punto non potevo far altro che raccontare ciò che stavo vivendo in diretta sul social network, per lanciare un disperato SOS. Temevo di non farcela e volevo perciò lasciare una testimonianza di quanto mi stava accadendo, consapevole che la cosa avrebbe avuto immediatamente una grande risonanza, che sarebbe balzata subito all’attenzione di tutta la comunità. Come del resto mi aspettavo ho cominciato a ricevere messaggi di conoscenti e amici che avevano letto il mio post, dopo pochi minuti dalla pubblicazione.

Non volevo, insomma, che tutto questo passasse sotto silenzio, né durante né dopo! L’ho fatto perché la gente si rendesse conto della violenza che stavamo vivendo e prendesse posizione dinnanzi ad un fenomeno che interessa l’intera comunità. In questo modo avrei spinto non solo l’opinione pubblica ma anche L’amministrazione e gli organi competenti a venire allo scoperto, ad assumersi le proprie responsabilità. D’altronde garantire la sicurezza non è compito del singolo, non solo. Mi sbaglio?

Appena poche ore prima dell’accaduto eravamo andati in scena con “Il muro di silenzio”, un testo che parla proprio dell’importanza di non accettare la sopraffazione dei prepotenti, dei bulli, dei boss di campagna o di quartiere. L’opera spinge a vincere l’omertà, anche spingendo gli altri a farlo. Se avessi taciuto, se non avessi provveduto a rendere noto l’inferno che stavo affrontando, mi sarei comportato da ipocrita.

Quella sera ho sperimentato personalmente quanto il silenzio, la paura, la remissività siano vive nella società odierna: ho invocato aiuto e nessuno mi ha prestato ascolto, la polizia è giunta sul posto ad aggressione finita, e l’ambulanza si è rifiutato di entrare nel quartiere, se non preceduta da una volante! Sono proprio questi comportamenti irresponsabili e semplicistici che non consentono a questa terra di cambiare.

Ma per fortuna il silenzio è stato rotto e quel muro di contiguità con la zona grigia della società civile, dove la paura si mescola alla rabbia e al desiderio di vendetta, è stato infranto. Sono piovuti a centinaia i messaggi di solidarietà, di sdegno per quanto accaduto, e tutti a volto scoperto!” 

 

Forze dell’ordine affatto celeri e ambulanze che si rifiutano di soccorrere i residenti di quartieri “difficili”. Come vivi la tua quotidianità dopo aver sperimentato le conseguenze di una simile inefficienza?

“Come l’ho vissuta prima e come la vivrò dopo: con grande amarezza ma con il proposito di non mollare. Continuerò a denunciare la mancanza di controlli permanenti, i ritardi, le omissioni le inefficienze. Mi opporrò a tutti coloro che preferiranno lasciar correre in nome del quieto vivere, che di quieto francamente non ha più nulla.”

 

Perché non andar via da questo quartiere? Cosa ti spinge ad asserire con fermezza “è qui che abitiamo ed è qui che rimarremo?”

“Perché se vado via oggi, la paura avrebbe la meglio: mi piegherei al ricatto dei malfattori, dei miei aggressori e di chi non muove un dito per cambiare una realtà quanto mai aberrante.  Andrei contro i miei stessi principi e tutto questo perderebbe di senso, persino questa intervista.”

Pensi che i delinquenti in cui ti sei imbattuto fossero semplici teppisti con troppo alcool in corpo o ritieni che dietro tanto accanimento si nasconda qualcos’altro? Potrebbe trattarsi di omofobia?

“Assolutamente no! Teppisti, bulli, delinquenti che vivono di espedienti: ecco cosa sono, ma niente di più. Gente che merita d’essere braccata, isolata dalla società civile, anche se in qualche modo lo è già. Omofobia? Non c’entra nulla. Tra l’altro quella sera ero solo, non c’era il mio compagno con me, non davo nell’occhio. La rapina non ha niente a che fare con il mio orientamento sessuale, benché della mia condizione non ne faccia affatto un mistero. Non mi hanno neanche insultato, escludo che tutto ciò possa avere a che fare con la mia vita privata. É stata una semplice, barbara aggressione, un atto di forza e di prepotenza, gravissimo ma fine a sé stesso.”

 

Non è a prima volta che il tuo nome compare sulle testate dei quotidiani: pochi mesi fa sei stato protagonista di una vicenda che ha messo in discussione la tua dignità di essere umano ed ha coinvolto le autorità giudiziarie internazionali. Vuoi parlarci di ciò che ti è accaduto in Eritrea?

“Preferisco non rivangare quella storia: me la sono gettata alla spalle e adesso se ne occupano i miei avvocati. A suo tempo, è vero, ha avuto una grande eco mediatica ma cos’è accaduto dopo? Niente, o forse ancor meno di niente! Aspetto ancora risposte concrete da parte dello Stato, per la perdita del lavoro e per la discriminazione subita in un Paese con cui l’Italia stila accordi politici ed economici, ratificando, di fatto, la terribile dittatura che lo governa. Queste fatidiche risposte che non sono mai arrivate, mentre i danni economici e morali sono stati e continuano ad essere enormi.”

 

Dopo aver vissuto simili paure, essere stato oggetto di discriminazioni approvate dalla stessa legge locale, accetteresti nuovamente un incarico nei Paesi del Medio Oriente?

“Non ho pregiudizi né barriere in tal senso. Certo, mi guarderei bene dall’accettare un incarico in un Paese Omofobo che perseguita e condanna gli omosessuali senza le dovute garanzie da parte dello Stato Italiano. Uno Stato che discrimina i propri cittadini, non riconoscendo, non già il matrimonio tra persone dello stesso sesso o le unioni civili, ma neanche i matrimoni omosessuali contratti all’estero, favorisce inevitabilmente episodi di questo tipo, in quanto costringe chi abbia contratto un matrimonio omosessuale fuori dall’Italia a non poter dichiarare la propria condizione di coniugato al momento di firmare un contratto di lavoro. In questo modo il soggetto risulta celibe ed implicitamente eterosessuale. Mi spiego: In Eritrea, ad esempio, i rapporti consenzienti tra persone dello stesso sesso sono vietati per legge. Qualsiasi uomo o donna che venga da un altro Paese e che risulti sposato/a con un soggetto dello stesso sesso, è dunque reo/a a priori.

 Se i matrimoni omosessuali contratti all’estero fossero ratificati dall’ Italia, Lo Stato Italiano potrebbe accertarne prima la compatibilità con le leggi del Paese ospite ed eviterebbe così di mandare i suoi cittadini nella tana del lupo.”

 

Cosa suggeriresti affinché aggressioni, pestaggi, rapine ed episodi simili cessino di verificarsi? 

“Non spetta a me suggerire o trovare soluzioni. È sicuramente necessario “fare muro” dinnanzi a simili comportamenti di sopraffazione senza arrendersi e senza averne paura, non abbassando la guardia e non perdendo la fiducia nelle autorità.

Le istituzioni potrebbero aprire un dialogo con i cittadini, creare un osservatorio su tali fenomeni e contemporaneamente risanare il territorio. Sarebbe utile legalizzare, laddove possibile, le attività commerciali, offrire opportunità di risanamento dei lavori sommersi o degli esercizi illeciti, applicare regole diverse e forse più flessibili che in altri contesti.

Forse basterebbe concedere nuove possibilità di sviluppo, preparando però il territorio a recepirle con modalità che non siano traumatiche o violente: cultura, educazione, sensibilizzazione sono ottimi ingredienti per un ricetta da sperimentare. Non ci si può limitare alle proibizioni, se poi non si possiedono gli strumenti per colmare il vuoto che l’applicazione di norme inflessibili comporta.

Naturalmente le mie sono solo impressioni e opinioni di un semplice cittadino che assiste impotente ad un innegabile disastro umano e civile. Con ogni probabilità le strategie e le soluzioni possibili sono molto più complesse di così.”

 

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