Palermo anni novanta, la redazione violata

In una Palermo distrutta e combattiva, cosa nostra non cessa di mietere vittime. L’uccisione del generale Dalla Chiesa, quell’atroce 3 settembre 1982, fu causa di rabbia e sconforto, terrore e brama di rivalsa. Il popolo, stanco e avvilito, è deciso a riprendere le redini del capoluogo e la magistratura è finalmente dalla sua parte, almeno così sembrerebbe.

Nuovi fermenti serpeggiano fra i cittadini, le voci fuori dal coro sono sempre più numerose. Le rotative girano incessantemente  e quotidiani del calibro de L’Ora riscuotono sempre maggiore successo. Palermo diviene, seppur gradualmente, terreno fertile per l’audace ed inedita iniziativa del Dottor Falcone: il 1986 si apre con la prima udienza del Maxiprocesso, con ben 475 imputati. Il giornalista scrittore Vincenzo Vasile ci conduce attraverso gli anni decisivi per le sorti della sua città, ormai in balia della malavita da troppo tempo.

Tommaso Buscetta è stato uno dei primi a collaborare con la giustizia. Era presente durante le sue deposizioni?

“Certamente. Buscetta non fece altro che chiarire alcuni meccanismi interni a cosa nostra che in passato ignoravo totalmente, nonostante mi fossero passati sotto gli occhi più volte durante il mio lavoro. Per esempio spiegò che durante i periodi di tregua, quando la lupara tace, la mafia non attraversa affatto una crisi: si rafforza! Ed è proprio quello che accadde all’inizio degli anni Settanta, quando iniziai a scrivere: le organizzazioni criminali erano impegnate ad incassare i profitti della droga, ad arricchirsi insomma. Inoltre non mancava chi, fra loro si dedicava alle alleanze con il mondo politico. Il tasso di omicidi era temporaneamente diminuito semplicemente perché si stavano occupando di altro. Incredibile!

Sa, negli anni Cinquanta la mafia non era affatto come la conosciamo adesso: il tenore di vita dei malviventi non era per niente alto. Mi è capitato di incontrarne qualcuno nelle aule di giustizia: indossavano vestiti malridotti ed avevano un’aria davvero trasandata. Se adesso non è più così, lo devono soprattutto agli introiti del commercio di stupefacenti. Questa è una cosa di cui sono venuto a conoscenza proprio durante il processo.

Ricordo che durante la deposizione di Buscetta c’era un silenzio quasi spettrale. Nessuno degli imputati osava dire una sola parola, nonostante in nostro collaboratore li stava condannando al carcere. Si trattava senza dubbio di una forma di rispetto nei confronti del capomafia, rispetto di cui non godette invece Totuccio Contorno. Lui non era un boss, era uno di loro: quando arrivò il suo turno, venne accolto da urla, insulti e parole irripetibili.”

Dopo le dimissioni del Dottor Caponnetto, tutti erano convinti che sarebbe strato Falcone a presiedere la superprocura. Come mai è stato nominato Meli?

“Beh, di questo argomento mi sono occupato abbastanza approfonditamente proprio in uno dei miei libri. Si trattava di una trappola ordita ai danni del giudice Falcone ovviamente.”

Perché tendergli una trappola?

“In quel periodo Falcone si stava occupando di questioni molto delicate: indagava già da un po’ sui rapporti fra mafia e politica e aveva cominciato a nutrire sospetti anche nei confronti dei cugini Salvo. Da loro dipendeva la gran parte dell’economia siciliana, non si scherza mica! Si trattava di inchieste scomode, che stavano prendendo una piega oserei dire incontrollabile. Che fra gli indiziati figurassero anche volti noti della politica di certo non andava bene ad un bel po’ di gente, così decisero di limitare il suo raggio d’azione.

Per quel che riguarda Meli, beh l’avevo già conosciuto. Era il presidente della corte d’assise che pochi anni prima aveva assolto i mandanti dell’omicidio Chinnici.

Ironia della sorte, fu chiamato a dirigere l’organo che Chinnici stesso aveva voluto e istituito. Non avrei mai potuto pensare ad un paradosso simile!

Nonostante il torto subìto, Falcone non smise mai di prodigarsi per il bene di Palermo. Con lui ho mantenuto i contatti anche quando mi sono trasferito a Roma. Era un uomo lungimirante, capace di guardare in prospettiva al futuro della sua città, a differenza dei suoi successori. Nessuno fu alla sua altezza in seguito, come non lo sono affatto le commemorazioni in suo onore: sono riti stanchi e vuoti, che non gli rendono affatto giustizia.

Del resto il suo contributo nella lotta alle mafie è strato imprescindibile: si pensi anche solo alle indagini sulla connivenza di Andreotti. Certo, dimostrarlo non è stato semplice, c’è voluta la nostra Letizia Battaglia!”

 

A cosa si riferisce?

“Durante le sue deposizioni, Buscetta ha sempre negato che Andreotti avesse a che fare con la malavita. Eppure i sospetti c’erano, ed erano fondati! Nessuno era riuscito a dimostrare alcunché, così si prese ad ispezionare gli archivi fotografici, alla ricerca di un’immagine che potesse confermare i dubbi avanzati da giudici e procuratori. Ebbene, anni prima Letizia Battaglia aveva fotografato l’ex Premier in compagnia di Nino Salvo, nella tenuta della Zagarella: era una prova schiacciante. E pensare che quel rullino Letizia non l’aveva neanche sviluppato!

Questo dimostra quanto essere presenti ai fatti,

essere testimoni di ciò che accade sia importante.

Da giornalista, non posso fare a meno di ribadirlo.”

Seppur per pochi mesi, lei è stato responsabile della direzione de L’Ora palermitana. Come mai il giornale ha chiuso i battenti proprio due mesi prima della strage di Capaci, senza preavvisi o spiegazioni?

“Quello è stato un brutto colpo anche per me. Premetto che avevamo avuto qualche problema finanziario, ma non è stato affatto determinante.

Purtroppo le vere ragioni per cui L’Ora non è più andata in stampa sono tuttora ambigui, anche per me. L’unica cosa che posso fare è avanzare delle tristi ma plausibilissime ipotesi.

Dopo la fine del Maxiprocesso sparatorie, stragi ed episodi simili si ridussero notevolmente: sembrava che tutto stesse gradualmente tornando alla normalità. Eppure c’era qualcosa che non mi convinceva affatto. Si trattava di piccoli, inconfondibili segnali che la mafia continuava ad inviare alle istituzioni , periodicamente, senza far scalpore. Noi della redazione ce ne occupammo, sicuri che presto sarebbe accaduto qualcosa di grave. E così è stato: nel Marzo del 1992 Salvatore Lima è stato ucciso. Nei giorni che seguirono, il nostro giornale vendette un numero di copie inimmaginabile: le nostre previsioni si erano avverate e la cosa non poteva passare inosservata.

Pochi giorni dopo ricevemmo delle vere e proprie intimidazioni: qualcuno fece irruzione all’interno della redazione e tagliò ì cavi di tutti i macchinari. Eppure noi continuammo, anche se per poco.

L’8 Maggio 1992 il giornale chiuse, improvvisamente. Mi toccò saperlo la sera, dai redattori: nessuno si degnò di avvisarmi. Ancora oggi è difficile parlarne con distacco per me.

Qualche anno dopo, durante un processo , fu reso noto che qualcuno aveva tentato di acquistare il giornale: si trattava di Bagarella, che dietro suggerimento dei un informatore avrebbe preferito comprare il quotidiano, piuttosto che farlo saltare per aria.

Ė naturale che tutto questo avesse a che fare con la sospensione improvvisa delle pubblicazioni:

L’Ora proclamava scomode verità

e in una fase delicata come quella,

sarebbe stato meglio toglierla di mezzo.

E cosi hanno fatto.

La magistratura non ha proseguito le indagini purtroppo, quindi non mi resta che rassegnarmi: non posso dire altro che questo.”

 

Fanno parte della stessa intervista anche i seguenti articoli:

http://ilcarrettinodelleidee.com/sito/il-punto-di/item/3217-palermo-anni-settanta-non-solo-minigonne.html

http://ilcarrettinodelleidee.com/sito/la-redazione/item/3221-stragi-e-martiri-nella-palermo-anni-ottanta.html