Palermo anni Settanta, non solo minigonne

Era il 1972 quando un giovane e sconosciuto

Vincenzo Vasile muoveva i primi passi nel

mondo del giornalismo italiano.

Corrispondente e caporedattore de L’Ora di Palermo, Vasile prese a occuparsi di cronaca in una Sicilia apparentemente quieta, avvolta da un’insospettabile alone di imperturbabilità.
Quelli erano gli anni delle frizzanti limonate di Via Venezia, del cinema Diana con le sue tende di velluto dismesse e dell’incantevole minizoo di Villa D’Orleans. Anni di propaganda politica, manifestazioni e sit-in di protesta. Anni di sogni e utopie, di lotte e vittorie. Anni indimenticabili, insomma. Ma non è tutto qui: nel capoluogo siciliano, gli anni Settanta vedono lo sfacciato trionfo della corruzione, della criminalità organizzata, delle gare d’appalto “truccate”. La Palermo di allora era già vistosamente deturpata dal sacco edilizio che aveva rimpinguato le tasche di politici e mafiosi: gli accordi fra malavitosi e personalità della politica si susseguivano, m a nessuno in città sembrava accorgersene. Calma piatta dunque, ma è soltanto la quiete prima della tempesta. Palermo è destinata a vivere un enorme, spaventoso cambiamento e Vincenzo Vasile non ha esitato a documentarlo con indiscutibile passione, arguzia e prontezza. Noi de ilcarrettinodelleidee.com abbiano tentato di ripercorrere le dolorose, memorabili tappe di una Palermo insanguinata, che non rinuncia all’onestà, nonostante tutto.

Come ha avuto inizio la sua carriera di giornalista? 

 

“Quando ho cominciato non ero che un ragazzino, un precario. Non sapevo dove mettere le mani ed ero lì più che altro per imparare il mestiere. Certo, ammetto d’essere stato un po’ presuntuoso all’inizio, ma solo per qualche mese. Il lavoro lasciava davvero poco spazio alla presunzione ed era necessario rimboccarsi le maniche.”

Era già deciso a trattare temi spinosi come i rapporti fra cosa nostra e mondo politico e le guerre di mafia a Palermo?

 

“Nei primi tempi ho dovuto mettere da parte i miei interessi culturali e politici: ero un cronista e il mio compito era quello di raccontare ciò che accadeva giornalmente, niente di più. Non nascondo però che mi sarebbe piaciuto occuparmi di qualcos’altro: avevo alle spalle tante letture, fra cui decine di libri sull’operato della banda Giuliano. La mia famiglia fu coinvolta in prima persona nel processo di Viterbo, così scritti del genere erano all’ordine del giorno in casa mia.
Quando ho cominciato a lavorare, tuttavia, Palermo stava attraversando un periodo di cosiddetta pax mafiosa: niente stragi né movimenti sospetti, soltanto qualche regolamento di conti. Le cose cambiarono a partire dal 1977.”

Cosa accadde?


“Ebbe luogo un’improvvisa escalation di delitti mirati. Le strade di Palermo divennero teatro di omicidi efferati, che presero a susseguirsi con un’allarmante frequenza. La nostra città smise di essere “sicura”, o forse non lo era mai stata. Sta di fatto che toccò proprio a noi cronisti occuparci delle vicende che si stavano verificando proprio sotto i nostri occhi: eravamo gli unici effettivi testimoni in Italia, gli unici che potessero documentare quanto avveniva. Di certo questo rendeva il nostro lavoro molto più interessante del solito, ma scrivere di simili accadimenti non era una passeggiata.
La spirale di omicidi che travolgeva la nostra Palermo subì una battuta d’arresto con l’uccisione di Piersanti Mattarella, allora Presidente della Regione, e del capo dell’opposizione Pio La Torre. Dopo questa prima, terrificante parentesi sia il giornalismo che le istituzioni cambiarono il loro volto, seppur parzialmente. Del resto non poteva essere altrimenti.”

A quale cambiamento allude?


“Innanzitutto furono le forze dell’ordine a trasformarsi, anche se non del tutto. Del resto personalità come Boris Giuliano non si incontrano di certo tutti i giorni. Anche la magistratura cambiò: basti ricordare Rocco Chinnici, che raccolse intorno a sé un gruppo di promettenti giudici non ancora noti, fra cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per iniziativa di Chinnici nacque il primo Pool antimafia, senz’altro una pietra miliare. Grazie alle indagini condotte con magistrale abilità, ci rendemmo conto che ciò con cui avevamo a che fare era molto più complesso di quanto si credeva: per la prima volta abbiamo sentimmo parlare di talpe, di infiltrati persino fra i maggiori organi dello Stato.
Stavamo prendendo coscienza della portata del fenomeno e la cosa non poteva lasciarci indifferenti. Spesso con i colleghi parlavamo di quanto questo interminabile conflitto si stesse trasformando in una vera e propria guerra civile. Eh sì, una vera e propria guerra civile di cui non riuscivamo a vedere la fine.”

Quanto vi era concesso scrivere di tutto questo?


“Fortunatamente la mia era una posizione privilegiata: il giornale a cui facevo capo aveva sempre dato spazio a tematiche simili. Era il quotidiano di punta: capitava spesso che inviati di altre redazioni si servissero proprio delle informazioni pubblicate da noi per redigere articoli di cronaca. Per ciò che riguarda le altre testate non parlerei di paura, né tantomeno di interesse a non rendere noti determinati eventi. Si trattava piuttosto di una sottovalutazione diffusa del fenomeno. Nessuno sembrava capire quali fossero i meccanismi alla base dei delitti di mafia: nel resto di Italia non si parlava ancora di una conflitto fra istituzioni e criminalità organizzata.

L’idea di un vero e proprio scontro frontale non godeva di larga diffusione, almeno non nei primi anni Ottanta. Basti pensare che in occasione dell’omicidio di Boris Giuliano alcuni colleghi avanzarono l’ipotesi che anche lui avesse a che fare con la malavita. Non avevano le idee chiare, per niente.
Ci volle l’uccisione del generale Dalla Chiesa affinché nel resto della nazione ci si rendesse conto del problema: prima di allora solo tante, inutili chiacchiere.”