di Claudia Fucarino
Continuando il nostro itinerario alla scoperta della Palermo nascosta, ci indirizzeremo adesso a Piazza Santi Cosma e Damiano nota anche con il nome piazza Beati Paoli, per via della presenza della limitrofa grotta dei Beati Paoli.
La piazza, così come le attigue piazza Papireto, piazza Monte di Pietà e piazza Sant’Onofrio, era una delle tante polle o pozzanghere che si formavano lungo il tragitto dell’antico fiume Papireto.
Sulla piazza prospetta, oltre l’abbandonata chiesa di Santi Cosma e Damiano da cui prende il nome la piazza, la graziosa chiesetta di Santa Maria di Gesù, chiamata affettuosamente dagli abitanti del luogo, Santa Maruzza.
La chiesetta sede della Confraternita dei portatori di basto o canceddi, particolari ceste per il trasporto di grosse merci, custodisce l’antica cripta, utilizzata per la preparazione e conservazione dei corpi dei trapassati frati. La cripta, un tempo collegata al tribunale dei Beati Paoli, fungeva così da ingresso, alternativo. L’ingresso originario era da palazzo Baldi – Blandano, sull’attuale Via Beati Paoli, dove sul muro è tutt’oggi visibile la targa gialla con su scritto “Antica sede dei Beati Paoli.”
L’attuale ingresso alla grotta è, invece, oggi situato presso vicolo degli Orfani, la vorticosa stradina alle spalle della chiesa.
Sebbene la storia dei Beati Paoli venisse tramandata attraverso una semplice e discontinua tradizione orale, raccolta nei settecenteschi “Opuscoli palermitani” del marchese di Villabianca, già alla fine del Settecento la presunta setta, di cui erano note le gesta, non era tuttavia più esistente.
Solo tra il 1909 e il 1910, il grande scrittore Luigi Natoli, con lo pseudonimo di William Galt, trasformerà ciò che costituiva una frammentaria tradizione orale in un attuale e accattivante romanzo in cui si mescolano mirabilmente fantasia e tradizione. Il romanzo “I Beati Paoli”, pubblicato a puntate sul “Giornale di Sicilia”, apprezzato da tutte le classi sociali, costituisce ancora oggi un Best Seller, molto apprezzato da grandi e piccoli lettori. Esso narra le vicende della famigerata setta segreta, nata probabilmente a seguito e come conseguenza dello strapotere che i nobili palermitani, sostituindosi alla giustizia statale allora pressoché inesistenze, esercitavano nei confronti della povera gente. Del rituale adottato dalla società segreta sappiamo solo ciò che ci racconta il Natoli. Gli storiografi, per una sorta di riserbo o omertà, non riportano alcuna informazione sulla loro attività.
Ciò che viene ingegnosamente romanzato dal Natoli è la storia di una setta che, a fronte e come vendetta dei numerosi torti e soprusi, si assoldò a tribunale di giustizia popolare. É possibile che i giustizieri, dopo avere deliberato rapide e risolutive sentenze di morte, operassero di notte e che, per muoversi indistubati e lontano dagli occhi indiscreti, utilizzassero le molteplici gallerie e cavità sotterranee preesistenti e anticamente utilizzate per altri scopi.
Sebbene mancassero notizie certe riguardo la setta e al suo operato, non mancano, tuttavia, descrizioni dettagliate della grotta, riportate nei diari nei più grandi storiografi del passato.
Il Villabianca ci riporta, infatti, l’esistenza di una stanza entrando a sinistra (oggi non visibile perché tompagnata), più piccola e più buia con una mensa centrale in pietra (che ricorda la mensa utilizzata e visibile nella stanza del Refrigerium della Catacomba). Riferisce anche della presenza di un sedile semicircolare che presenta degli incavi dove porre le armi. Non fa cenno però sull’esistenza del pozzetto, che sicuramente già esisteva ma che forse lui non vide o dimenticò di menzionare. Non cita neanche la vasca, visibile oggi entrando sulla sinistra. Il sedile semicircolare è ancora oggi esistente, anche se sembrerebbe essere differente da quello descritto dal Villabianca che presentava invece gli incavi per le armi.
Gli scrittori successivi al Villabianca, in particolar modo l’Arcano e il Di Giovanni, non citano la presenza del tavolo in pietra, probabilmente utilizzato coma base per realizzare il muro posto a separazione delle due stanze. Riferiscono che si accedeva alla grotta dal palazzo del Barone Blandano (Palazzo Baldi Blandano), in Via Beati Paoli, 35.
La grotta è oggi composta da un unico vano illuminato da un buco a forma di occhio posto sul soffitto.
A sinistra è presente la vasca – non coeva alla grotta – e in fondo, dietro una piccola ringhiera si trova l’apertura del pozzo. Ad un primo sguardo, sembrerebbe una camera dello scirocco, per via della presenza della sorgente d’acqua, dei sedili posti lungo le pareti e del pozzo di ventilazione. Ed in effetti lo è. Era, infatti, consuetudine quella di utilizzare i cubicoli e le zone ipogee arcaiche della città sotterranea per altri successivi utilizzi, così da riadattare i luoghi alle varie esigenze legate ai periodi storici. Del resto il riutilizzo e la disastrosa spoliazione dei monumenti antichi era una pratica molto utilizzata che aveva fondamenti religiosi legati alla abnegazione da parte della nuova religione, sia essa musulmana che cristiana, nei confronti della religione ad essa precedente. Le camere dello scirocco sono dei particolari ambienti sotterranei, scavati nella roccia, situati sotto i palazzi, le ville di nobili aristocratici, appartenenti alle classi più agiate. Erano strutture poco rifinite, attraversate da Qanat, antichi acquedotti, che avevano il preciso scopo di produrre fresco. Attraverso, infatti, l’elevata inerzia termica della calcarenite e grazie allo scambio di calore tra acqua ed aria, – ecco la presenza dell’acqua sorgiva – per via dell’evaporazione e dell’effetto di tiraggio, dettato dalla finesta posta sul tetto, si produceva un abbassamento della temperatura, che dava refrigerio, soprattutto quando soffiava il vento caldo umido di scirocco. Si tratta di un vero e rudimentale processo termodinamico che, migliorato grazie alla presenza di correnti d’aria, spinge l’aria calda verso l’esterno, grazie ad una sorta di tiraggio dell’aria -effetto camino, dettata dalla torre del vento, cioè la particolare forma oblunga della grotta tendente verso l’esterno, che culmina con un occhio stretto.
Dalle varie testimonianze tramandateci inizialmente dal marchese di Villabianca nei suoi famosi “Opuscoli Palermitani” del 1790, e dai successivi studiosi e storiografi come Bruno Arcano[1], Vincenzo Di Giovanni[2], e infine Antonio Salerno[3], è certo che si tratta di una grotta per adunanze plenarie e di una successiva camera dello scirocco. E’ importante, tuttavia, notare come la lavorazione per escavazione delle pareti calcarenitiche della grotta rimanda alla catacomba d’Ossuna (Vd Palermo nascosta – Catacomba Porta d’Ossuna).
All’interno della grotta, sul lato destro possiamo notare un saggio effettuato, anni fa dal Settore del Centro Storico del Comune di Palermo, in cui è stato trovato un tetto voltato. Probabilmente trattasi di un’antica stanza, posta ad un livello inferiore, alla quale si accedeva per mezzo di una scala. Sembrerebbe la stanza, che descritta dal Villabianca, fungeva da luogo di smistamento delle numerose gallerie sotterranee,utilizzate come via di fuga: verso vicolo degli Orfani e verso il Chiano della Guilla.
Occorerrebbero, oggi, nuovi e più approfonditi saggi perlustrativi per scoprire se ciò che viene tramandato nei diari dei nostri predecessori sia effettivamente reale o se sia solo frutto di una suggestiva credenza popolare.
[1] “Sopra una pagina di storia municipale” del 1873
[2] “La topografia antica di Palermo dal X al XV secolo” del 1889-1890
[3] “Palermo sotterranea” del 1940