La questione israeliana – meglio, la questione palestinese – occupa da mezzo secolo l’interesse dell’Europa, degli Stati Uniti, certamente del Medio Oriente, ma in fin dei conti del mondo intero. Un mondo oggi sempre più in declino e sempre sotto la costante minaccia di ciò che il politologo statunitense Samuel Huntington ha definito come «the Clash of Civilizations» («lo scontro di civiltà») che secondo un’attenta analisi dello stesso sarà provocato «probabilmente dall’interazione fra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e l’intraprendenza sinica – come definisce i paesi dell’estremo Oriente». Oggi, d’altra parte, compito di una società emancipata dal ruolo delle organizzazioni internazionali sarebbe quello di pronunciarsi in maniera decisa sulla soluzione di una situazione divenuta certamente insostenibile per il popolo palestinese, così come che per chiunque in Occidente cerchi di instaurare un dialogo vero e disteso con le realtà statuali mediorientali.
Ma, in un Europa appresso ai propri guai economici ed alle ultime imprese coloniali nel Nord Africa, ed in un “Middle East” in tumulto sotto la spinta dei giovani e l’insostenibile peso dei proiettili dei governi, la “questione” per eccellenza passa in secondo piano, tanto che persino uno Stato come la Grecia – che nel gennaio 2009 (come impeccabilmente riporta Noam Chomsky su Truthout) si era fermamente rifiutato di concedere il permesso per l’imbarco degli armamenti U.S.A. verso Israele per l’attacco combinato a Gaza – oggi, pressato dall’Europa e dalle agenzie di rating mondiale che attaccano senza sosta l’Euro ma che fanno finta di non vedere la corsa verso il default della madrepatria statunitense – e, guarda caso, con un israeliano, Stanley Fischer, candidato di sorpresa alla presidenza del Fondo Monetario Internazionale – , è costretto a bloccare le navi superstiti della Freedom Flotilla in rotta verso Gaza City. Quindi, in uno stato di calamità che si perpetua da sessant’anni e che la debolezza dell’O.N.U. ha sempre lasciato “risolvere” agli alleati nazionali, la spinta – come i missili certo, come gli attentati e le assurde e terribili mosse terroristiche, ma Israele, con i suoi Boeing AH-64 Apache ed i suoi rastrellamenti, dovrebbe essere l’ultimo Stato a recriminare – arriva dall’Autorità Nazionale Palestinese, che ha visto perdere consensi in Occidente dopo che elezioni dimostrate come libere e competitive – a differenza di molte millantate democrazie europee, come la nostra – hanno portato all’elezione dei “cattivi” di Hamas, nella persona di Ismail Haniya, che recentemente ha dichiarato: «Se Israele dichiarasse di dare ai palestinesi uno Stato e ridare loro tutti i loro diritti, allora saremmo pronti a riconoscerli». E la spinta si è concretizzata nella campagna promossa nei confronti dell’O.N.U. per l’approvazione di una risoluzione che riconosca finalmente lo Stato indipendente della Palestina. Rimangono però da definire i termini ed i risultati di una tale politica palestinese, oltre che le reazioni israeliane.
Se è pur vero infatti che un tale riconoscimento da parte delle Nazioni Unite non avrebbe alcuna forza per fermare la continua colonizzazione israeliana nelle terre palestinesi, Israele è oggi principalmente preoccupata che il movimento palestinese possa utilizzare il metodo delle risoluzioni per spostare la questione aldilà dei negoziati interni con lo Stato Ebraico, riavvicinandosi perciò ad un ambito di diritto internazionale ripetutamente violato, dal 1967 ad oggi, da Israele. Questo minerebbe l’intera strategia di cui si sono fatti portatori i leader israeliani nella legittimazione dell’occupazione del territorio palestinese, quella che fa riferimento alla propria supremazia militare – ed all’incondizionato appoggio statunitense – per modificare – anche in violazione delle convenzioni internazionali – la situazione geografica e demografica dei territori occupati, istituendo situazioni di fatto che sono finite per diventare gli unici fondamenti di legittimazione dell’insediamento israeliano in terra palestinese.
La possibilità di bypassare l’ambito dei negoziati diretti – condotti da una sostanziale posizione di forza israeliana – significherebbe quindi spostare l’attenzione dai termini di conflitto interno e di quella che Lamis Andoni, su Al-Jazeera, definisce come «l’autoproclamata sicurezza nazionale israeliana» all’ambito della tutela dei diritti riconosciuti in ambito internazionale, e di cui il popolo palestinese pare privato irrimediabilmente. La stessa Lamis Andoni, nell’articolo per l’agenzia araba, afferma che per l’Autorità Palestinese sarebbe «più importante condurre la campagna – quella per il riconoscimento alle Nazioni Unite – come parte di una strategia seria, e non semplicemente come una tattica per eludere o ripristinare le negoziazioni sotto nuove condizioni, scarsamente alterate rispetto alle precedenti». Di questo sia Fatah – che controlla la Cisgiordania – che Hamas – al governo di Gaza – sembrano coscienti, e determinati a fare il possibile per il riconoscimento dello Stato palestinese. In questo caso, però – caso che rischierebbe davvero di fermare le bombe in Terra Santa – , è necessaria, ancora una volta, la determinazione dell’O.N.U., assente eccellente di sempre.