COMO- Non c’è esperienza che sappia dare un’idea più autentica e drammatica di cosa voglia dire sentirsi impotenti che la miopia burocratica. Una miopia che, per mesi interi, strappa i figli a un genitore solo sulla base di un sospetto.
Questa è una storia senza nomi e cognomi. E senza indicazioni geografiche precise. Cautele indispensabili non già per proteggere enti o adulti, ma per tutelare due bambine, entrambe minorenni, vittime di una denuncia tanto atroce quanto falsa, che le ha costrette a vivere per sei mesi lontane da padre e madre. A ripercorrere i passaggi di una vicenda sfociata in un’inchiesta penale archiviata in sei mesi dalla Procura (le accuse di violenza sono state ritenute infondate) è il padre dei due bimbi. Un medico comasco.
Accetta di parlare, nello studio del suo avvocato – il legale Micaela Bianchi – e assistito da Alessandra Bonduri, che ha preso a cuore il complesso fascicolo giudiziario. Cominciato in piena notte, come succede con gli incubi. La primavera del 2009 è appena iniziata. Ma nella casa della famiglia il gelo cala a tradimento.
«Alle tre della mattina la mia ex moglie mi sveglia. E mi aggredisce sostenendo che nostra figlia più grande (la coppia ha due bimbe, entrambe in età prescolare ndr) fosse vittima di molestie: “finalmente so chi ha moltestato nostra figlia: sei tu”. Il mattino dopo sembra tranquilla. Ma la sera mi annuncia: “arrivano i carabinieri, li ho chiamati”». Una radiomobile dell’arma, in effetti, si presenta a casa del medico e della moglie. Viene deciso – come da prassi – di portare le bimbe in pronto soccorso per le visite. Proprio nell’ospedale dove il padre lavora.
«Siccome non ho mai avuto nulla di cui vergognarmi e di cui sentirmi accusato, il giorno dopo mi sono presentato regolarmente al lavoro». Ma la situazione precipita presto. La moglie, in seguito ad alcune crisi, viene ricoverata in psichiatria. Le figlie restano nel reparto di pediatria. Arrivano i servizi sociali.
«Io chiedo a mia sorella di raggiungere le bimbe e di stare con loro. Nel frattempo i risultati delle visite mediche confermano che non vi è stato alcun abuso. Così la sera mi presento in reparto per portare a casa le mie figlie, ma mi dicono che non posso».
Un’assistente sociale e una psicologa hanno infatti «dato ordine che le bimbe non stiano con me, senza un’autorizzazione del tribunale». Le piccole trascorrono la notte in ospedale, assieme alla zia, e solo il giorno dopo il padre riesce a contattare i servizi sociali. «Prendo appuntamento e vado a parlare con loro e mi spiegano che non posso avvicinarmi alle mie figlie. Poi, dopo pochi giorni, mi chiedono di firmare un’autorizzazione per portare le bimbe in una casa famiglia, altrimenti non potevano garantire dove sarebbero state mandate. Ho accettato perché avevo paura che chissà che fine avrebbero fatto. E dopo tre giorni le mie figlie sono state accompagnate in una comunità».
Solo tre settimane più tardi il tribunale dei minori convoca il medico. «Ho prospettato al giudice la situazione. Gli ho spiegato che avevo visto le mie bambine per dieci minuti prima che le portassero nella casa di accoglienza, poi più nulla. Il giorno dopo dal tribunale è arrivato l’ordine di organizzare incontri tutelati sia per me che per la madre».
Un’ora ogni quindici giorni il papà. Due ore una volta la settimana la donna, nel frattempo dimessa dopo un lungo ricovero in psichiatria. In quattro mesi il medico potrà vedere le figlie un totale di 8 ore appena. «Dopo quattro mesi il giudice decide di mandare le bimbe con la mamma in un’altra casa di accoglienza». Un mese ancora e la procura chiude il caso: la denuncia della moglie si è dimostrata falsa e le imputazioni vengono archiviate.
Bimbe e madre restano nella casa famiglia un anno. Poi il giudice che segue la separazione della coppia dispone l’affidamento congiunto, e colloca le piccole a casa della madre.
La situazione migliora. E la famiglia all’orizzonte intravede la riconquista di una serenità frantumata. «Ciò che di questa storia non potrò mai perdonare – commenta il papà – è il funzionamento di un sistema che, per un pregiudizio, ha traumatizzato due bambine».
Chiosa finale. Il medico denuncia ai rispettivi ordini professionali l’assistente sociale e la psicologa intervenute per prime. Gli assistenti sociali hanno sanzionato la sua iscritta con un’ammonizione. «Gli psicologi hanno archiviato senza neppure aprire l’istruttoria».