Parliamo di mafie. Intervista al criminologo Federico Varese.

– Pubblicità-

Si chiama Varese, è nato a Ferrara, si è laureato a Bologna, ma vive ad Oxford, dove insegna criminologia in una delle Università più prestigiose al mondo. Ennesimo brillante cervello “made in Italy” prestato alla ricerca d’oltralpe, Federico Varese è oggi uno dei più accreditati studiosi delle organizzazioni criminali, un vero e proprio gigante della “mafiologia” internazionale. Autore di numerosi saggi e di una monografia sulla mafia russa (The Russian Mafia, Oxford University Press, 2001) è considerato il maggior esperto di criminalità post-sovietica del mondo anglosassone, ed il suo lavoro è stato anche utilizzato a più riprese da John Le Carré, il più grande maestro della letteratura spionistica.

Nel 2011 pubblica per Einaudi “Mafie in Movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori”: uno studio, frutto di un decennio di ricerche, in cui il professore di criminologia analizza le condizioni che permettono ad una mafia radicata in un dato territorio di riprodursi al di fuori dei suoi confini tradizionali. “Un saggio disciplinato, complesso, un’opera scientifica […]. Si tratta di un’analisi profonda sul trapianto delle mafie fuori dai propri territori di origine. Fuori da quelli che vengono comunemente percepiti, con superficialità, come i loro confini “naturali”», così Roberto Saviano, in un articolo apparso qualche mese fa su Repubblica, descriveva “Mafie in Movimento”.

È per noi un onore, oltre che un piacere, pubblicare sul Carrettino delle Idee l’intervista che il professore Federico Varese ha gentilmente deciso di concederci.

 

Professore Varese, perché proprio le organizzazioni criminali? Da dove nasce questo suo interesse per la tematica?

Ho iniziato la mia carriera di studente e di studioso con un interesse per l’Unione Sovietica, in particolare per la fine del regime sovietico e l’arrivo della democrazia e dell’economia di mercato in Russia. Quando ero studente di Scienze Politiche a Bologna ho cominciato a studiare il russo per cercare di comprendere quella che era una trasformazione socioeconomica senza precedenti. Poi mi sono trasferito a Cambridge per un master e lì sono venuto a contatto con un professore che in quel momento stava scrivendo un saggio sulla mafia siciliana. Insieme a lui ho discusso l’ipotesi di una tesi di dottorato incentrata sulla transizione al mercato in Russia, con l’intenzione di indagare  se e come questa transizione avesse generato una mafia simile a quella che era emersa in Sicilia.

 

Un’analogia interessante. Cosa ne venne fuori?

Anche in Sicilia la mafia emerse durante una transizione al mercato: quando, nei primi decenni dell’800, venendo meno il feudalesimo, furono liberalizzati i mercati e si poté acquistare la terra. È proprio a partire dal 1806, con quel corpus di leggi che di fatto segnò il tramonto del feudalesimo, che nacque anche in Sicilia l’economia di mercato e, quasi parallelamente, la mafia. La mia domanda era se fosse possibile che anche la Russia avrebbe vissuto dinamiche analoghe. Quindi il mio interesse e’ sempre stato lo studio di come Stati governano l’economia di mercato. E anche lo studio dei loro fallimenti.

 

Recentemente lei ha pubblicato per Einaudi “Mafie in movimento”, uno studio in cui sostiene, tra l’altro, che le migrazioni e il soggiorno obbligato non sono fattori necessari e determinanti per il diffondersi delle mafie nei territori cosiddetti “vergini”.

Esatto. Spesso nei paesi che ricevono flussi migratori si pensa sic et simpliciter che gli immigrati importino il crimine organizzato. Questa e’ una tesi fatta propria dalla Lega in Italia. Anche qui in Inghilterra, ad esempio, c’è una sorta  d’isterismo nei confronti dei migranti. Ma in realtà la migrazione di per sé non produce la mafia: in questo senso il libro mostra chiaramente che la migrazione dal Sud al Nord Italia in alcuni casi ha prodotto l’emergere della mafia ed in altri no. Ciò vale anche per il soggiorno obbligato, frutto di una politica certo miope ed errata, basata su una interpretazione culturalista del crimine, l’idea cioè che un soggetto condannato per reati di mafia possa redimersi trascorrendo due o tre anni al Nord, trasformandosi d’incanto in un onesto cittadino. Vero è, però, che in alcuni casi la combinazione di migrazione, disoccupazione, presenza di mafiosi al soggiorno e condizioni locali molto particolari, come l’emergere di un mercato non adeguatamente controllato, hanno rappresentato la miscela perfetta per l’emergere della mafia al Nord.

In “Mafie in movimento” lei sostiene che sarebbe anche la difficoltà o l’incapacità delle istituzioni nel gestire i mercati locali a creare quel vuoto di potere che viene poi colmato dalle organizzazioni criminali, attraverso il sistema della protezione e della gestione dei cartelli.

Esatto. Dove c’è una certa difficoltà nel controllare e regolare l’economia locale, le organizzazioni criminali di stampo mafioso si insinuano, producendo un beneficio per alcuni attori dell’economia locale e provocando, di contro, un danno per tutti gli altri cittadini e gli imprenditori privi di “protezione” mafiosa.

Recentemente è apparso sul “New York Times” un suo articolo su Berlusconi. Secondo lei il fenomeno “berlusconismo”, caratterizzato in parte da un labile confine tra sfera pubblica e privata e da una sempre minore ingerenza e controllo delle Istituzioni nel settore dell’iniziativa imprenditoriale, può in qualche modo aver favorito l’ascesa della criminalità organizzata ai vertici dell’economia italiana in generale e lombarda in particolare?

Questa è una domanda molto complessa che necessiterebbe approfondimenti adeguati. Nell’articolo da lei citato critico Berlusconi, sia come fenomeno politico che come individuo: questa è la premessa. Ora cerco di rispondere alla sua domanda: Uno degli effetti sicuramente negativi della presenza di Berlusconi al Governo risiede in quel senso d’impunità perseguito attraverso le leggi ad personam e, soprattutto, nell’attacco alla Magistratura. Leggo, per esempio, che spesso i magistrati non hanno nemmeno le risorse economiche necessarie per trascrivere le intercettazioni telefoniche e – come lei sa – le intercettazioni sono uno strumento assolutamente fondamentale per la lotta alla mafia. In questo senso il “berlusconismo” credo abbia contribuito all’indebolimento della lotta alla mafia.

Più in generale Berlusconi non ha posto al centro della sua azione l’idea che lo Stato dove regolare l’accesso ai mercati, e renderli piu’ aperti e competitivi. Al contrario, ha lasciato che si sviluppasse un deficit di governo dell’economia, che non significa un maggior ruolo dello stato nell’economia. La mia tesi è che ci voglia un Stato forte per governare l’economia: se c’è uno Stato forte che governa l’economia allora anche la mafia sara’ in difficolta’. Un’altra cosa che Berlusconi non ha fatto era rafforzare la giustizia civile: la capacità della giustizia civile di risolvere le dispute tra uomini d’affari tende a ridurre la domanda di mafia.

 

E lo scudo fiscale? Può essere considerato un altro fattore che ha contribuito al rafforzamento delle organizzazioni criminali attraverso la maggiore possibilità di riciclaggio di denaro sporco?

Lo scudo fiscale è un unicum in Europa, e la cosa gravissima di questo strumento è che coloro che ne beneficiano non sono tenuti a rivelare la loro identità e la fonte dei loro soldi. In Italia non solo non c’è punizione per coloro che hanno portato i capitali all’estero in maniera illegale ed evaso le tasse, ma, al contrario di quanto accade negli altri paesi che hanno utilizzato lo scudo, non sono nemmeno tenuti a dichiarare la provenienza dei loro soldi. Questo già di per sé è gravissimo, se poi i soldi in questione sono di origine criminale è chiaro che si vanno a legittimare dei capitali che invece, in teoria, il governo dovrebbe cercare di intercettare e bloccare. Con questo non voglio affermare che lo scudo fiscale abbia rappresentato la colpa massima di Berlusconi nei confronti della lotta alla mafia, però è certamente uno degli elementi che ha giocato un ruolo.

 

 

Al Meridione l’immagine della mafia tutta “coppola e lupara” è ormai uno stereotipo superato, nel senso che anche qui al Sud la mafia ha sempre più assunto il volto di un’organizzazione non più dedita solamente al racket o al traffico della droga, ma pienamente immersa nei grandi circuiti della finanza internazionale. Mi riferisco, ad esempio, agli interessi delle cosche per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, oltre che, naturalmente, a tutti gli interessi legati al business delle energie rinnovabili e dei rifiuti. Insomma, pare che dappertutto le organizzazioni criminali tendano sempre più spesso ad assomigliarsi, a privilegiare i medesimi canali d’investimento. Cosa ne pensa?

Secondo me la mafia ha un ottimo fiuto per i mercati più redditizi, come le grandi opere, il riciclaggio dei rifiuti e qualsiasi altro settore in cui gira tanto denaro. Da questo punto di vista io non credo che la mafia sia cambiata molto rispetto al passato: la mia impressione è che in fondo abbia sempre cercato di inserirsi nei mercati che potenzialmente poteva controllare e governare. E quindi il mercato delle grandi opere – penso ad esempio agli interessi criminali sulla costruzione del ponte sullo Stretto di cui parla il giornalista Antonio Mazzeo ne “I Padrini del Ponte” – o il riciclaggio dei rifiuti in Campania, come ha ben evidenziato Saviano nelle sue inchieste. Ecco da questo punto di vista io credo che la mafia sia al Nord che al Sud non sia cambiata affatto: semplicemente si è adattata alle nuove condizioni che si sono presentate.

 

Insomma, una mafia che si muove al passo coi tempi?

 

Si’, certo. A mio avviso c’è una continuità forte, ad esempio, tra uso della violenza ed abilità nel controllare i mercati ritenuti più redditizi.

 

Abbiamo parlato della difficoltà della magistratura nel condurre le indagini, specie se non supportata da strumenti adeguati. Ma un “sistema giustizia” più efficace sarebbe sufficiente a sconfiggere la mafia?

 

Oggi la grande notizia che tutti coloro i quali studiano o si occupano di mafia dovrebbero raccontare è che non solo la mafia non è stata sconfitta al Sud ma addirittura si e’ espansa al Nord. Questo secondo me è accaduto perché la mafia non può essere sconfitta solamente con le armi della magistratura. La mafia è principalmente un problema sociale. La mafia si sconfigge rendendo piu’ efficiente la giustizia civile, riducendo la corruzione, aumentando l’accesso al credito dei piccoli imprenditori, riducendo la complessità della legislazione.

 

 

Giustizia civile che dovrebbe coinvolgere anche gli attori di quei mercati locali che la mafia tenta di controllare?

 

La mafia il più delle volte agisce riducendo la concorrenza per gli imprenditori locali. Se un imprenditore locale è esclusivamente mosso dal profitto la mafia è in grado di offrirgli un servizio molto utile, e quindi finché non si rompe questa alleanza tra interessi imprenditoriali e crimine organizzato, la lotta alla mafia non andrà mai da nessuna parte. Certo, verrà arrestato il boss di turno ma poi ne arriverà un altro. Questo secondo me è fondamentale per combattere e sconfiggere la mafia: rompere l’alleanza tra mafiosi e imprenditori. Alleanza che si crea soprattutto nelle piccole realtà locali, anche settentrionali.

 

 

Qual è il consiglio che si sentirebbe di dare al Paese. Quale la sua ricetta per combattere efficacemente la mafia?

 

Smettere di parlare della legalità in senso generico, smettere di fare appelli generici alla legalità, ma assicurarsi che le leggi siano chiare, semplici e facilmente applicabili dalla magistratura e dalle amministrazioni locali. Assicurarsi che la giustizia civile funzioni e sia più efficace della giustizia privata, che la concorrenza nei mercati locali sia garantita in maniera efficace dalle istituzioni e che ci siano delle agenzie nazionali che si occupino proprio di proteggere questa concorrenza.

La soluzione alternativa a quella che propongo e’ quella adottata dall’Unione Sovietica, che consisteva nell’abolizione tout court del mercato. Quindi se vogliamo fare un’economia di mercato dobbiamo farla seriamente, se no lasciamo perdere e transitiamo verso uno Stato ad economia pianificata, anche se naturalmente sappiamo che questa è un’ipotesi che non ha dato molti frutti.

Prima di lasciarci ci piacerebbe sapere di cosa si occuperà nei suoi prossimi studi.

Mi occuperò del traffico dei clandestini. M’interessa capire come funzionano i network che trafficano esseri umani da un posto ad un altro: dal Nord-africa alle coste meridionali della Sicilia e dai paesi dell’Est (Moldavia, Ucraina, Bielorussia, ecc.) verso l’Europa Occidentale.

 

– Pubblicità-