Peppe ha preso le scale. Quaggiù.

Franco, siciliano, fa l’operaio a Varese. Da sei anni. Salire lassù dalla Sicilia, dall’afa lucente di Pachino, provoca probabilmente vertigini acute, e buie, ma tant’è. Di lavoro si campa. E si muore. Perché Franco decide di fare come Mario. Lo fa, visto che lei non è rimasta quando lui ha spiegato “amore, sai, in fabbrica m’hanno cacciato a me con altri sei… Ci sta la crisi e adesso sono guai”. Così s’è sparato pure lui. E, ironia della sorte, proprio quando il tasso d’interesse sul suo mutuo era sceso dello 0,04 per cento. Il bello è che Mario diceva agli amici, giù a Pachino, che “c’è sempre un buon motivo per andarsene da qui. In fondo è meglio la metropoli. In questa terra Dio non ne fa più miracoli”.

Non è facile. Scrivere un testo come questo, e azzeccare la melodia, la ritmica, le pause, è davvero difficile. Peppe Giuffrida, però, c’è riuscito. E non è certo la prima volta. Peppe racconta la società senza nessun orpello, scrive brani che fotografano qualsiasi cosa attraversi il tempo che vive. Gli alberi, l’asfalto, la gente, le tazze vuote di caffè. “Franco” racconta l’enorme difficoltà del viaggio che spera di avere un ritorno. Racconta la parabola discendente di chi non ci riesce in Sicilia e alla fine non ci riesce in Lombardia. Peppe è capace d’inserire la parola “mutuo”, nel brano, parlando del tasso d’interesse, specificando la percentuale. E non è facile. Già scrivere il testo, dopo aver avuto l’intuizione, di per sé è difficile, ma riuscire a calarlo e sposarlo con una melodia, una ritmica, assume un profilo decisamente proibitivo. Si deve essere autori di canzoni, cantautori, non semplicemente musicisti o semplicemente parolieri o – come dice qualcuno – poeti; e si deve essere bravi, punto. E Peppe bravo è.

Quando lo incontro, per intervistarlo e parlare con lui, artista rimasto al Sud, della difficoltà che fermentano all’interno della scelta di rimanere – una scelta probabilmente più difficile di quella di partire, e sicuramente non assimilabile a quella di non partire, dato che spesso non è frutto della negazione di futuro, bensì della volontà di futuro – quando ci sediamo a raccontarci le facce del presente scopriamo di riuscire a parlare ore. Decido di ascoltarlo, “Franco”, quel brano nato dalla notizia che di suicidi dalle sue parti ce ne sono tanti, troppi. Un suo amico, musicista, c’è caduto. “Franco” è nato in mezzo alle notizie di morte. La ascolto e mi piace. Peppe la suona da un amico, il batterista di un gruppo diventato nel giro di pochi mesi enormemente noto. Si chiama Peppe come lui. Si è costruito una sala d’incisione, a casa, affascinante. Bella da potersi considerare una musa. Sono magnifiche la sale d’incisione, e non so perché. Di certo odorano di creatività. Anche di sigarette, sì, ma soprattutto di creatività.

Nelle pause fra una mezz’ora e l’altra dell’intervista Peppe discute di royalties, chiama Milano e si arrabbia. Lui di mestiere scrive brani, firma pezzi per band famose e guadagna quanto gli spetta. Ma a volta gli spetta di più, e nascono quelle telefonate. È un mestiere difficile, soprattutto nell’Italia del 2011. Difficile come qualsiasi mestiere chieda di mettere nero su bianco, senza applicare la mente su formule matematiche, senza impegnare il corpo in attività che tendono i muscoli. Ha qualcosa a che fare con quei laureati in materie umanistiche che si trovano tutti dentro un ascensore sociale che non li regge. Questo paese gli ascensori li ha chiusi quasi tutti, e i pochi rimasti fanno fatica. Peppe, che ha deciso di prendere le scale, e le fa di corsa, riesce a vivere di musica perché è bravo, e a vederlo così, coi ricci morbidi legati dietro la testa, la barbetta, lo sguardo che quando imbraccia la chitarra perde un po’ di luce e si abbassa, pensi che potrebbe pure farsi simbolo di un’epoca febbricitante. Se con quella chitarra suona “Passa la banda” quasi te ne convinci. E lo pensi già prima che la suoni, quando spiega che la banda è il frutto dell’onorata società, quel gruppo di mani nere che abitano la stessa Isola che Peppe ama. Quel gruppo di mani che strapparono la vita a Pippo Fava. “Passa la banda, spara la banda”, grida, prima di cantare la cabala del 5 che riveste quel fatto di sangue. Cinque colpi verso quella Renault cinque, con cinque coinvolti. Il cinque gennaio morì, Fava, come il cinque gennaio nacque Peppino Impastato. E siamo sempre là: costruire un brano partendo da queste considerazioni è difficile. Mica ci finisci, a Sanremo, se non

viaggi sul binario dell’amore. Figurati se decidi di rimanere qua, a cantare di morte, a vivere in un angolo di Sicilia in mezzo ai boschi, con poca luce per le strade e un mucchio di cani in casa. Sono bellissimi, i cani, quando restano siciliani come te.

“È inutile sognare, tanto poi ti sveglierai”, fa spiegare a Franco. Ma non ci crede, Peppe. Certe cose bisogna dirle alla gente, ma poi si fanno delle scelte. Una terra, una casa, i cani. Lì ci si può pure svegliare, e sorridere.

Sebastiano Ambra