Qual è, per Lei, il valore della sopravvivenza?
Il valore della sopravvivenza è un misto di gioia e di dolore. La gioia di vivere e il dolore di
sopravvivere pensando ai meno fortunati che non sono stati ammessi alla sublime visione di vedere
l’alba del giorno dopo, piuttosto che inebriarsi del candido e fresco profumo della Zagara in fiore,
è un valore inestimabile. E poi, ahinoi, il costante pensiero di essere stato “graziato” dal fato,
riverbera sensi di colpa e allora per superare o per lo meno affievolire la colpa dell’esistenza in
vita, punti tutto sulla gioia di vivere compiendo viaggi nel ritroso mondo, ove si è condiviso gioie
e amarezze con gli scomparsi. Spesso mi domando, perché vivo? Incosciamente la risposta me
l’ha data una ragazzina di terza media: “Grazie di essere vivo, altrimenti non avrei avuto modo di
conoscerla e di non conoscere appieno la mafia”. Migliaia e migliaia di ragazzi, ascoltandomi in
silenzio e facendomi tante domande, mi fanno dimenticare d’essere un sopravvissuto.
La scrittura, come forma di comunicazione, ha sempre un destinatario immaginario… Chi vorrebbe che fosse il suo lettore? e chi è realmente? Coincidono?
La mia intenzione, atteso che avevo deciso di comunicare con altri attraverso la scrittura, è rivolta
alle persone che come me credono nei valori dell’uomo, del passato, nonché del futuro e soprattutto
verso una società dove cavalli di frisia, bunker o filo spinato non abbiano motivo d’esistere. Il mio
lettore dovrebbe essere privo di logiche egoistiche e soprattutto esprimere senza tentennamenti
valori morali, di equità e giustizia. Non è più tempo di coltivare propri orticelli: fuori dal recinto
c’è il Mondo, c’è l’uomo con le sue ansie e paure. Ma c’è il lettore ed è proprio a lui che mi rivolgo,
bussandogli sulla spalle per fargli capire di volgere lo sguardo al passato, per capire il futuro. Il
mio lettore è una persona onesta, una persona che senza tanti giri di parole ricerca nei miei scritti,
momenti di vita reale raccontati con disarmante semplicità. Il mio e il loro pensiero coincidono
perfettamente.
Ogni scrittura che ha radici autobiografiche segna anche un percorso di autocoscienza per chi lo scrive… Scritta l’ultima parola, a cosa si è sentito approdato?
A nessun porto, fin quando non conoscerò la verità sulle stragi mafiose del 92/93, navigherò,
navigherò e navigherò: la verità la pretendo, mi appartiene. Scrivere è stata e sarà una necessità.
Per anni il silenzio era il mio unico amico fedele; un amico stracolmo di solitudine interiore, quella
solitudine che dall’età di tredici anni ha sempre accompagnato la mia esistenza. E, proprio la
solitudine ha forgiato il mio essere che poi è stato il prodromo dei miei silenzi; silenzi interrotti
grazie ad una splendida donna che è riuscita ad aprire la cassaforte del mio “mutismo”, la signora
Agnese Borsellino. Per anni sono stato un naufrago che navigava nelle acque tempestose del
passato e più i ricordi assalivano la mia mente, più il silenzio s’impadroniva del mio cuore e Agnese
Borsellino ha rappresentato lo scoglio a cui aggrapparmi: lo scoglio della comunicazione..
Che responsabilità implica la consapevolezza di appartenere a una memoria storica?
Implica il dovere di far conoscere il vissuto tenendo in mente di raccontare la verità, di raccontare
situazioni corroborati da dati di fatto e no di relato. Sino a qualche tempo fa la mia memoria è stata
usata da altri come un bancomat a cui attingere linfa per le investigazioni. La mia responsabilità
verso altri che ne facevano richiesta, persino da parte di un noto organismo federale statunitense,
non è mai stata messa in discussione. La memoria storica non è solo mia è un patrimonio che metto
a disposizione dell’accertamento della verità: parola caduta in disuso dai politici.
Che valore ritiene abbiano le occasioni commemorative? e in questo specifico caso: cosa crede che dovrebbero portare con semplice nudità alla luce?
Premetto che spesso ho scritto d’essere fuori dal coro, tant’è che non festeggio compleanni,
ricorrenze e non faccio auguri. Dunque sono contrario ad alcune commemorazioni, perché
rappresentano un momento effimero dove l’ipocrisia è palese. Ovviamente mi riferisco alle
commemorazioni farsesche dove si evince una teatralità ad uso e consumo dei mass media. E poi
siamo onesti, che senso ha commemorare le stragi mafiose di Capaci e via d’Amelio, quando la
verità rimane un illusione? Anzi, duole ancor di più apprendere che le verità stesse siano state
manipolate o in alcuni casi distrutti elementi utili per chiarire vicende oscure. Ma come si può ancor
oggi commemorare i martiri delle stragi mafiose del 92/93, quando pezzi dello Stato, sembrano
essere i fautori di una trattativa con la mafia? È assurdo ed è per questo che l’anno scorso e vale
anche per quest’anno, ho sollecitato pupi, pupari ed affini, a non presentarsi il 19 luglio in via
d’Amelio: non c’è bisogno di “pupiate”. Solo la verità e la restituzione dell’Agenda Rossa potrebbe
farmi cambiare opinione: basta poco per accendere la luce della verità. Dire la verità!