Genova 2001. Un nome, una data, che restano impressi nella memoria e trascinano con sé immagini assurde quanto orribili: gli scontri durissimi, l’irruzione della polizia alla Diaz, il corpo senza vita di Carlo Giuliani. Giorni che rimangono scolpiti, nella storia. Non però con la gloria degli allori, ma con il sangue della violenza. Amnesty International ha definito i fatti accaduti nel capoluogo ligure: “La più grave violazione dei diritti umani avvenuta in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”. Parole che pesano come un anatema lanciato sul nostro paese e che rimangono indelebili. Le condanne della Corte di Cassazione dei poliziotti coinvolti nei pestaggi della Scuola Diaz per lesioni e falso in atto pubblico – niente di più, dal momento che in Italia non sussiste il reato di tortura, previsto dalla Convenzione dell’Onu e in vigore in altri paesi europei – e per i manifestanti no global rei, secondo l’accusa, di devastazione e saccheggio, non fanno calare il sipario su quegli avvenimenti, che restano come una ferita aperta nella coscienza della nazione. E mentre i primi manifestanti condannati sono già detenuti per scontare pene che vanno dagli 8 ai 14 anni, pochi giorni fa è uscita la notizia della riduzione di pena per Vincenzo Canterini, ex capo della Mobile di Roma. Canterini è stato condannato insieme ad altri sedici poliziotti per i fatti avvenuti alla scuola Diaz e per aver successivamente firmato verbali falsi . E’ da notare – e lo hanno fatto in tanti – che tra prescrizione e indulto nessun funzionario delle forze dell’ordine, seppur condannato, sconterà un solo giorno di carcere. In questo contesto, L’Osservatorio dei diritti di Catania ha scritto una lettera a Mario Monti, per ottenere le dimissioni di De Gennaro, l’allora capo della polizia e attualmente sottosegretario agli Interni.
L’Osservatorio nasce lo scorso dicembre su iniziativa di un gruppo di avvocati della città etnea e vuole essere una rete di esperienze che unisce i legali che hanno scelto di schierarsi dalla parte dei più deboli, per difenderne i diritti, anche di chi non sa nemmeno di averne, soprattutto migranti, lavoratori in nero e detenuti. Unico referente politico , per statuto, è la costituzione della Repubblica. E sono proprio i membri di questo osservatorio a prendere l’iniziativa per ottenere la destituzione di De Gennero, lanciando una campagna firme che in una settimana ha registrato tremila adesioni. Nessun giustizialismo, solo un principio, semplice quanto infallibile: gli errori non fanno curriculum, si pagano. “Nomi come Diaz, Bolzaneto, le immagini dei pestaggi, della violenza inaudita e immotivata delle forze dell’ordine, sono un’onta indelebile per la nostra Democrazia. Un’onta che la Giustizia non potrà comunque alleviare. Le ferite che sono state aperte quel giorno non sono ancora rimarginate”. – scrivono nella lettera – “De Gennaro era il capo della Polizia in quei giorni. Noi pensiamo che in un paese evoluto, in una società, in una struttura organizzata, il Capo sia sempre e comunque responsabile della condotta dei propri sottoposti”. Che nomi implicati nello scandalo della “macelleria messicana” – come è stata definita l’irruzione alla Diaz – restino al centro della vita istituzionale del paese, è un fatto inquietante oltre che inammissibile. Continua la lettera: “ Qui non si tratta del mero “Chi sbaglia paga”; qui si parla di responsabilità, di etica, di senso dello Stato, di fare un passo indietro”. Un senso di responsabilità ed etica a cui il Dottor De Gennario sembra particolarmente sordo, dal momento che, all’indomani della sentenza della Cassazione, ha pubblicamente manifestato solidarietà per i funzionari condannati per il caso Diaz. Nessuna scusa quindi per le lesioni e i traumi riportati da pacifici manifestanti attaccati nel sonno, né per le prove false create successivamente ad arte per legittimare l’irruzione, ma quasi una giustificazione un decennio più tardi. Un episodio che potrebbe ben meritarsi di rientrare nella rubrica “succede solo in Italia”. Precedenti e convinzioni, quelle del dottor De Gennaro, che poco si addicono a chi continua a ricoprire cariche istituzionali, stanno in questo le motivazioni dell’Osservatorio, che ha ideato un modo molto facile per sostenere la proposta. Si può aderire, infatti, via internet, attraverso l’indirizzo [email protected], o mettendo “mi piace” nella pagina Facebook – social network in cui si può aderire all’iniziativa anche sotto forma di partecipazione all’evento.
Genova, il cui risvolto giudiziario ha visto punire più gravemente gli atti vandalici che le lesioni, resta un paradigma che riassume e porta ad esibizione quelli che sono tra i temi più scottanti del dibattito politico contemporaneo: il tema della violenza, declinato sia dalla parte dello stato che della piazza, il conflitto di hegeliana memoria tra stato e società civile, la diatriba tra la difesa delle cose o delle persone, l’angolo cielo della violenza di stato una volta che viene messa in atto, il confine, sottile in modo inquietante, tra polizia di stato e stato di polizia. Per questo il G8 di Genova resta il protagonista indiscusso dei dibattiti, undici anni dopo. Pietra di paragone degli scontri del 15 ottobre a Roma o della Valle di Susa.
Il tema, classico e attualissimo, della violenza di stato è uno degli oggetti di studio di Pietro Saitta, – docente di Sociologia del Diritto presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Messina – che non ha dubbi a identificare lo Stato con il Leviatano. Come a dire che da questo punto di vista, dai tempi di Hobbes ai gironi nostri poco è cambiato. “L’unico soggetto autorizzato all’uso della violenza è lo Stato. Ma per quanto riguarda, ad esempio, la carica dei carabinieri in via Tolemaide contro il corteo autorizzato delle Tute Bianche, per non parlare di quello che ha fatto la polizia alla Diaz, ci sono addirittura delle sentenze che parlano di violenza “illegittima” – spiega Saitta –“Ciò implica che, pur avendone il monopolio, lo stato deve fare un uso della violenza legittimo, ovvero all’interno di una cornice”. Premesso che in molti episodi delle giornate genovesi è stato attestato un uso gratuito della violenza da parte delle forze dell’ordine, ergo dello stato, Saitta pone un punto interrogativo inquietante da un punto di vista teorico e pratico: “se la violenza dello stato è illegittima, la reazione della piazza non sarà di conseguenza legittima?”.Una domanda scomoda che non si può liquidare, o esorcizzare, con la presenza dei cosiddetti Black Block – che spesso sono ripresi ad agire indisturbati mentre le cariche si abbattevano arbitrariamente altrove.
Domande che potrebbero suggerire maggior cautela a chi, con troppa facilità, vorrebbe affrontare le istanze politiche sollevate dalla piazza come problematiche di ordine pubblico. Una tentazione che più che un’eccezione sembra essere la regola, basti pensare all’alto livello di conflittualità che caratterizza la storia dei movimenti di piazza del nostro paese. “La protesta politica in Italia è sempre stata sanguinaria. A parte una parentesi tra gli anni ottanta e novanta. Il 2000 segna il ritorno a un vecchio modo di fare polizia” – racconta il sociologo Saitta – “con una stretta relazione tra questo apparato e settori politici reazionari, fautori della cosiddetta “tolleranza zero”. Una pratica che spesso implica la totale impermeabilità nei confronti delle istanze portate avanti da movimenti formati da migliaia di persone. Dai 300.000 di Genova ai 20.000 della Val di Susa. Una sordità pericolosa oltre che poco democratica.
“Genova è stata questo: una gioiosa insubordinazione contro le politiche di fame della governance neoliberista fermata col ferro e col fuoco” – commenta amaro Luigi Sturniolo, membro del Laboratorio Luogo Comune e militante della prima ora della Rete No Ponte –“ Forse il movimento no global non poteva vincere, ma se avesse vinto non ci sarebbe stata la lettera della BCE e le politiche dell’austerità”. Se la storia non si fa con i sé, l’ammissione degli sbagli passati sarebbe una garanzia maggiore nell’impedire che si torni a compiere simili errori. Ma i responsabili del dramma del G8 di Genova – diretti e indiretti – sembrano refrattari ad ogni mea culpa. Primo tra tutti De Gennaro, che non ha mai neppure chiesto scusa. Un’ostinazione che rischia di gettare una luce ambigua su istituzioni e forze dell’ordine. In una vignetta di Quino, la bambina Mafalda chiede ad un poliziotto: “Lei è buono signor poliziotto?”, l’agente risponde prontamente che “tutti i poliziotti sono buoni”, ma in quel momento lo sguardo della bambina cade sulla pistola nella fondina. Mafalda si allontana a questo punto perplessa, commentando: “comincio a capire come funziona la bontà”…