PORTE APERTE ALLE DONNE, CONTRO OGNI VIOLENZA

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«Sappiamo bene che nessuno verrà a bussare alle nostre porte per chiedere aiuto – afferma Mariateresa con sguardo materno mentre mi scruta con fare bonariamente curioso – quindi nonostante questa sia la nostra sede legale il nostro vero lavoro non è qui. Non adesso almeno. Le borgate, le parrocchie, i quartieri difficili, è lì che dobbiamo insediarci. Non c’è altro modo per far capire alla gente che la nostra causa non riguarda un pugno di donne ai margini della società, ma riguarda tutti». Mariateresa Ciminnisi è la Presidentessa dello Sportello di Consulenza Legale e Psicologica presentato alla stampa venerdì 27 maggio presso la sede di Via Bonanno, nel cuore una elegantissima Palermo, fatta di chioschetti all’aperto e lunghe passeggiate, proprio qui l’associazione “Donnacostanza” muove i primi passi: obiettivo comune, la tutela delle donne.

La Ciminnisi è calma, eccezionalmente flemmatica: la sua non è una battaglia da combattere in strada, armati di manifesti provocatori e slogan d’effetto. Qui non si parla di rivendicazioni, di diritti strappati con le unghia e con i denti a una cultura maschilista, ai limiti della misoginia. Questa volta occorre fermarsi e voltarsi indietro, riconoscere la causa di ogni sopruso, tentare di leggere l’animo umano. «Il fatto è che sembra si sia rotto un discutibile equilibro – mi spiega pazientemente Mariateresa – la donna ha smesso di mediare, ha parzialmente abbandonato il materno, o almeno si è stancata di esercitarlo con la propria controparte». Sono ancora perplessa. Il materno? È all’essere madre che la donna avrebbe rinunciato? «Maternità non corrisponde a genitorialità – precisa la Ciminnisi – il materno è più un modo d’essere che una condizione: la donna è propensa all’accoglimento spesso incondizionato, senza riserve. Beh, c’è stato un momento in cui la donna si è scrollata di dosso il ruolo di mediatrice».

«È accaduto con inesorabilità, dapprima lentamente, poi con maggiore rapidità. Ed ecco il suffraggio universale, l’autodeterminazione, la libera gestione del sé, il divorzio, l’aborto: con la Legge 194, la donna si è guadagnata la possibilità di scegliere, di non dover chiedere, di ritenersi padrona del proprio corpo». Sì, in teoria. La legge che legittima l’interruzione di gravidanza avrebbe dovuto sancire il raggiungimento di una vetta, una definitiva ed imprescindibile conquista. Eppure nelle sale d’aspetto di ginecologia le donne si guardano ancora di sottecchi, temendo giudizi affrettati di infermieri e obiettori di coscienza. Nemmeno i consultori sono posti sicuri per chi desidera non portare a termine la gravidanza: persino ottenere la ben nota pillola del giorno dopo non era una passeggiata, almeno sino a pochi mesi fa. «Lo Stato se ne dovrebbe occupare senz’altro, di certo la massiccia presenza di obiettori nelle corsie ospedaliere non rende la vita facile a chi sceglie l’aborto».

Qualche passo avanti, troppi passi indietro. «Stiamo regredendo…», Mariateresa abbassa lo sguardo, tace per qualche secondo. Forse pensa al tempo speso per guerre che credeva vinte, costretta adesso a tornare sul campo di battaglia. Ma sembra troppo stanca per combattere ancora. “

«Penso all’utero in affitto, a come politici e clericali si contendano il pulpito, declamino verità che non hanno nulla a che vedere con il proprio quotidiano. E la donna? È del suo corpo che si sta parlando». Riacquista entusiasmo, i suoi occhi fissano un punto imprecisato. Sogna ancora. «Uomini e donne sono destinati alla mistione, a un connubio che non è compensativo né complementare. Non si tratta di scienza né di alchimia, ma di umanità. Non è ancora il momento, ma lo sarà prima o poi».

Mi tende la mano la Presidentessa, è ora di andar via. All’improvviso la stanza si anima di voci, la gradevole penombra lascia il posto alla luce di una lampada. Mi guardo intorno ancora un po’, giro fra i quadri esposti in una delle camere, lancio un rapido sguardo alla “stanza dei giochi”: lì ospiteranno i figli delle donne che busseranno alla loro porta, in cerca d’aiuto. Qualche peluche, una sedia colorata e lettere sbilenche incollate con studiata asimmetria sui muri candidi.

Scatto qualche fotografia e mi allontano in silenzio, ancora avvolta nel torpore della chiacchierata pomeridiana.

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