Preservativi. Nuovi spot, vecchi retaggi

Da qualche tempo gira lo spot di una nota azienda che produce dal 1929 il contraccettivo più adoperato al mondo, dopo quello naturale del coito interrotto: quello in lattice.

A far discutere, in verità, non è l’invito a usarlo (anzi, è anche positivo e condivisibile), ma soprattutto una credenza che stenta a essere smantellata: l’alternativa al condom è l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Indubbio che il profilattico permetta di ridurre dell’80% la possibilità di una malattia sessualmente trasmissibile come l’HIV (http://apps.who.int/rhl/reviews/langs/CD003255.pdf), ma che venga pubblicizzato come mezzo esemplare per “preservare” le donne dal ricorso all’IVG appare quantomeno discutibile.

La prima perplessità nasce dal fatto che la nota azienda abbia bisogno di adoperare i dati statistici del Ministero della Salute, emessi nel 2015 sulle IVG richieste nel 2013, e quindi la pressione psicologica affinché venga acquistato il condom. La sollecitazione del preservativo quale sostituto dell’aborto può forse riuscire a fare leva in chi non si accorge degli effetti delle pubblicità subliminali, di chi non si rende conto che non è tanto una campagna di salute quella portata avanti dall’azienda che vuol vincere facile, ma una campagna di vendita che adopera l’IVG solo come volano di vendita, “paura del”.

L’IVG non è una soluzione al controllo delle nascite (“L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”, art. 1, c. 1, legge 194/1978). Il preservativo può esserlo. Anche se la reale definizione di profilattico, in verità, è un’altra (almeno a leggere la Treccani): il profilattico è attinente alla profilassi, che mira a preservare dalle malattie.

A disciplinare la possibilità per una donna di essere esonerata dall’aborto non è, dunque, un preservativo. Né il non uso è la certa spinta per la donna ad abortire. È la semplificazione che non si accetta, non le eventuali sfumature.

La legge 194, all’art. 4, stabilisce che può ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza la donna che accusi – entro il terzo mese di gravidanza – circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.

E disciplina, all’art. 6, anche il ricorso all’IVG dopo il 90° giorno quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna e quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Nessuno vuole negare che il preservativo aiuti non solo a preservarci, come già detto, dalle malattie sessualmente trasmissibili, ma anche dalla possibilità di trovarci in uno stato di gravidanza non voluto. Ma da ciò ad arrivare al profilattico come strumento di salvezza è eccessivo.

Si può anche comprendere la difficoltà, di chi produce condom, a trovare modalità e strategie di vendita, ma ciò non può spingere ad adoperare qualsiasi pressione, anche quella psicologica strutturando delle evidenti distorsioni. Allo stesso modo, non sarebbe accettabile l’invito a praticare meno attività sessuale, se non per la famiglia e la sua procreazione, se ci si vuole accaparrare una fettina di paradiso tra i puri.

Inoltre, in pochi secondi, 30 per l’esattezza, appaiono i medesimi errori di sempre che hanno fatto della cultura femminile, della libertà di scelta, dell’assunzione di responsabilità concetti sui quali dissertare a proprio uso e consumo e non dei diritti inviolabili e indiscutibili.

La seconda perplessità parte proprio da qui, quindi, e riguarda l’immagine della donna che, tanto per cambiare, è dipinta come incapace di proporre e capire cosa desidera anche come protezione durante il rapporto sessuale con il partner. Non solo, ma anche come (s)oggetto che deve essere rassicurato (nello spot l’uomo dice alla donna “andrà tutto bene”). Insomma, la povera donna – incapace di scegliere, capire, proporre, impaurita e con bisogno di rassicurazione – riuscirà a salvarsi dall’IVG non solo grazie all’uomo salvatore (che già solo questa asimmetria basterebbe per indignarsi), ma grazie al preservativo che l’uomo userà per lei! E quindi i climax “narrativi” sono serviti: il terrore psicologico di una potenziale gravidanza, l’uomo salvezza, il preservativo dell’azienda quale strumento per l’uomo. La conclusione: la donna scamperà dal pericolo dell’IVG “ogni 5 minuti” (giusto per citare ancora lo spot) se sarà adoperato il preservativo.

È proprio vero: la gravidanza, la scelta di non averla, la libertà delle donne, la loro immagine di persone quasi ondivaghe, la qualità delle pubblicità, la reale scientificità di ciò che si afferma, e potremmo continuare, sono un problema così profondamente culturale, che per salvarci dalla malattia della costruzione sociale che distorce non ci basterà neppure una pletora di scatole da 10 condom cadauna.