Primula Rossa: il racconto di liberta’ negate

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Un film diverso, delicato e forte al contempo. Non si parla di uomini, ma di esperienza umana. Di accanimento umano. ‘Primula rossa’ si presenta così, senza troppi giri di parole, raccontando vite vissute nella privazione del bene più grande: la libertà. Una libertà che, dall’interno di un ospedale psichiatrico, ha l’amaro sapore di un ricordo lontano, ma terribilmente indelebile.

Franco Jannuzzi, regista che con ‘Primula rossa’ debutta nel mondo del lungometraggio, offre al pubblico la storia di  Ezio Rossi, ex terrorista dei Nap (Nuclei armati proletari), e della sua vita trascorsa tra carceri e opg (ospedali psichiatrici giudiziari). Insieme a quella di Ezio, Ezio Ennio nel film, tante altre vite che si intrecciano e si alternano. Storie di uomini rinchiusi, troppo spesso dimenticati. Prigionieri tra pareti di indifferenza. Un racconto che unisce sobrietà e semplicità per presentare una tematica trattata con rispetto e delicatezza, riuscendo a fondere con equilibrio comicità e drammaticità. “Abbiamo cercato di mantenere un grande rispetto per questa storia – spiega il regista – Siamo partiti da una vicenda collettiva per arrivare a concentrarci su due storie, quella di Ennio, il protagonista, e quella dello psichiatra, che entrerà man mano in contatto con lui e che incarna un po’ lo spirito della fondazione ‘Luce è Libertà’, che è alla base di questo progetto. Certo, le vicende sono molto problematiche. In alcuni personaggi abbiamo inglobato più storie, cercando così di presentare un panorama più ampio di ciò che esiste dentro un qualunque ospedale psichiatrico”.

La pellicola si propone di valorizzare l’esperienza del programma di welfare comunitario ‘Luce è Libertà’, finanziato dalla Fondazione di comunità di Messina e sostenuto inizialmente dalla cassa delle Ammende del ministero della Giustizia e dall’assessorato alla Sanità della Regione Siciliana. Un prodotto cinematografico realizzato nel messinese che ha permesso di mettere in luce la realtà di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), ben conosciuta dalla fondazione e dallo stesso Jannuzzi, che ci spiega come sia “una realtà che conosciamo molto bene grazie a un progetto che stiamo portando avanti a Barcellona da diverso tempo e che ha permesso di liberare 60 persone. Un programma che riguarda anche l’economia sociale con una metodologia ispirata alla legge Basaglia. Tramite questa attività, siamo riusciti a rendere più serene alcune persone. Persone che adesso conducono una vita normale. Sono impegnate in tante strutture a noi vicine, e molte di loro lavorano anche con noi nel campo cinematografico. Ci sentiamo molto vicini alla metodologia promossa da Basaglia, ma ad oggi, secondo me, si sta facendo qualche passo indietro. Il vecchio discorso del contenimento sta tornando in auge contrariamente a quella che dovrebbe essere un’impostazione basata sull’affettività, sulla concentrazione sul singolo.”

Valore aggiunto, un cast composto da attori attivi nell’ambito del sociale che, come dichiarato dal regista, “hanno fatto propria la problematica trattata con grande partecipazione. Sul set si  è creata un’ atmosfera molto bella, percepita da tutti come uno stare insieme in modo comunitario. Tutti, dalle piccole parti agli attori più importanti, hanno contribuito al 100 %”.

Nel cast, l’attrice Annalisa Insardà, il cui noto impegno sociale ha portato, come lei stessa afferma, “a dare un contributo per raccontare questa storia. Una storia vera, autentica, realmente accaduta. Portandola alla conoscenza di tutti diventa un dato, diventa storia. Perché la realtà è realtà, ma se non viene offerta, rimane nascosta e i più non possono goderne”. Nonostante l’attrice consideri la sua una “piccola partecipazione”, il coinvolgimento è stato ed è tuttora molto intenso. Continua la Insardà: “ da donna impegnata nel sociale, quando sposo un progetto si va a creare un connubio che non è mai soltanto artistico. Ha sempre una base di passione, di volontà, di partecipazione alla divulgazione del tema. Quindi il coinvolgimento è artistico ma soprattutto umano, specie quando le storie rappresentate ricordano una stratificazione sociale notevole e spesso dimenticata. Quella parte di strato sottesa ma dimenticata. Che si sa che esiste, ma della quale non si parla. La mia grande battaglia è quindi mettere a disposizione il mio lavoro per raccontare storie che devono essere conosciute”. E’ qui che entra in gioco l’elemento forse più importante e strategico, attorno al quale ruotano la pellicola e le sue storie: la memoria e, di conseguenza, il passato. “Il passato è ciò su cui si poggia il piede per lanciarsi verso un futuro ipotetico – spiega la Insardà –  L’unica cosa certa è la memoria, il futuro è un’entità astratta. E’ solo su una certezza chiara che si chiama memoria, che possiamo ipotizzare un futuro”.

Un futuro sul quale tentare di agire smuovendo le coscienze. Sensibilizzando, o anche solo presentando un problema, rendendolo di pubblico dominio. Creando quella conoscenza tale che può far auspicare ad una risposta da parte di quell’umanità non ancora inquinata.

Da questa pellicola ho imparato diverse cose – conclude il regista – cinematograficamente tanto. Ma soprattutto ho imparato l’umanità. Un’umanità sempre più profonda, grazie a storie che conoscevo solo in parte”.

Storie che qualcuno ha avuto il coraggio, la forza e la voglia di raccontare. In qualche caso, per alcune storie, se ne sente il dovere.

GS Trischitta