Processo con violenza

La  piccola  Annamaria è lì seduta  sola, fra di noi,  con le  nostre carezze, con i nostri sguardi affettuosi… sola.

Un giudice  riassume la sua storia con  la freddezza  di un chirurgo consumato dal tempo e  dalle  abitudini.

La sua  voce riecheggia confusa e distratta fra mille termini tecnici e burocratici,  ma  fra le  parole smozzicate dalla  voglia di fare in fretta e fra i tanti fogli da  leggere a beneficio  degli avvocati alcune di esse si staccano dal discorso,  fuggono dalla monotonia e volano basse e si infrangono sui nostri sbadigli:  “imene lacerato”,, “danni all’utero permanenti”, e il circo continua.

Parlano gli avvocati. Ed  ecco venire fuori uno spietato ritratto della  ragazza.

“proviene da  una famiglia di basso livello di istruzione” sembra questo il filo conduttore sia  dell’accusa  che  della  difesa, si parla di una  ragazza ignorante vissuta in un piccolo  paesino dell’entroterra calabro,  là dove  subire o ribellarsi  ti vale la stessa etichetta.

Parlano dei fatti, di chi iniziò le  azioni di violenza su Annamaria e di chi fu  semplice spettatore, di chi la vendette e di chi si limitò  ad un solo rapporto.

I particolari emergono con  sempre maggiore crudezza ma il denominatore comune è la  vita  semplice della famiglia e il loro basso livello di istruzione.

Ma sembra  non  trapelare che all’epoca dei fatti Anna Maria aveva 13 anni,  e che  solo a  15  anni riuscì a comprendere e ribellarsi e lo fece per difendere la sorella  da  quegli orchi che l’avevano attenzionata.

Ma  è ancora  qui quella bambina, una 13enne con un volto da 27enne e un corpo distrutto da 12 anni di processi. Processi nei quali,  come oggi,  ogni volta le tocca rivivere i morsi più atroci.

E’ ancora qui tra noi ma  nessuno la  vede, nessuno nota le lacrime scendere mute, mentre abbassa  la testa e si asciuga  gli occhi quasi a nascondere il suo dolore “antico” un dolore  con  il quale ha imparato a convivere ma non a condividere, mentre i suoi  aguzzini sorridono dal  fondo dell’aula di corte d’appello. Hanno vissuto in libertà tutti questi anni e  spavaldamente sorridono, il  loro sguardo è rivolto alla loro avvocata che,  pur essendo donna,  si rivolge sempre con malcelata cattiveria  nei confronti della  ragazza,  sino al  punto di lasciar trapelare che il  servizio di protezione al quale è sottoposta  Annamaria sia un  privilegio e non  la maggiore delle offese che si possa  offrire ad una  bambina violata.

Resta sul  ciglio  di una panca di tribunale ad asciugarsi il pianto, a ricordare  suo malgrado che le violenze subite l’hanno privata  del  più fondamentali dei diritti, non potrà essere madre, mai.

E gli avvocati continuano nella  loro requisitoria.

E una  bambina che continua a non  capire quale fu  la sua colpa