Roma, nel quartiere San Giovanni, si è consumata una tragedia familiare (e sociale) che ha sconvolto tutto il Paese.
Un bambino di appena dieci anni ha deciso di farla finita. Era dai nonni materni. Dopo essersi chiuso in bagno si è impiccato con una sciarpa. Vani sono stati i soccorsi. Ormai il bambino era deceduto.
La fredda casistica è piena di suicidi dei bambini ed adolescenti. Tuttavia quando è un bambino che decide di morire, la disperazione e l’angoscia colpiscono tutti in modo traumatico.
Questo povero bambino ha deciso di suicidarsi in modo “adulto” e consapevole. Impiccarsi è doloroso, presuppone freddezza, determinazione, consapevolezza, “tecnica”.
Non ci troviamo di fronte al bambino che ha deciso di precipitare nel vuoto dove basta lanciarsi da un balcone per compiere l’orribile missione.
Anche nelle modalità dei suicidi i bambini sono cambiati, sono sempre più adulti, su internet girano le istruzioni per l’uso su come uccidersi. Anche questo è il segnale dei nostri tempi, sempre più intrisi di solitudine, di amarezza, di senso di vuoto.
Siamo ormai abituati a leggere sui giornali il bollettino di guerra che riguarda le tragedie intrafamiliari. Troppo spesso i bambini cadono sotto i colpi del familiare folle e la scia di sangue sembra non avere fine.
Ma quando è un bambino a decidere di morire la tragedia è ancora più insopportabile.
Non si conoscono le ragioni di questo gesto. Pare che i genitori del bimbo stessero in fase di separazione. Non sappiamo altro e non sarebbe giusto né prudente arrivare a conclusioni affrettate o emotive. Davanti a questa tragedia occorre osservare solo rispetto e silenzio nell’attesa che di questa storia si sappia di più.
Adesso bisogna rispettare solo il dolore dei genitori e dei parenti di questo bambino. È certo, tuttavia, che non si può escludere a priori che il piccolo possa essere stato fortemente provato dalla disgregazione della sua famiglia. Chi si occupa di questa materia conosce molto bene quanto i figli dei separati, specie se contesi, siano “soggetti a rischio”. Anche quando la separazione è consensuale e i genitori si comportano reciprocamente in modo civile e responsabile, i figli soffrono nel vedere la loro famiglia, il loro unico punto fermo, disintegrarsi davanti ad un tribunale.
Non tutti i bambini sono uguali. Ci sono quelli che soffrono in silenzio, che si costruiscono una corazza e vanno avanti e ci sono quelli che entrano in un vicolo cieco. Ogni vicenda ha una sua dinamica, unica ed irripetibile. Guai a generalizzare.
Analizzando in generale la questione, senza cadere contraddittoriamente nel fare analisi sul caso specifico, si ripropone la penosa questione di come i figli vivono la scelta dei loro genitori di separarsi.
Di solito i bambini nelle separazioni e divorzi non hanno voce, nessuno li ascolta, nessuno li aiuta, nessuno spiega loro che la vita deve continuare come prima. Non li ascoltano i genitori, non li ascoltano i giudici. Non li ascolta nessuno.
Non è “l’ascolto del minore” introdotto dalla Legge 54/06, poco e male praticato nella realtà giudiziaria, a creare un vero canale di comunicazione con il bambino/adolescente che deve subire la decisione dei suoi genitori.
Non bastano, non possono bastare, trenta minuti di colloquio con un giudice o con uno psicologo ad offrire un aiuto o una opportunità ad un bambino ferito e deluso.
L’ascolto dovrebbe essere quotidiano, serio, qualificato, delicato.
Molte volte dei bambini contesi conosciamo solo i nomi e la data di nascita che compaiono nei ricorsi e nelle sentenze. Ma non sappiamo niente della loro vita, dei loro sentimenti, delle loro difficoltà, dei loro pianti nascosti e non.
Decidiamo della loro sorte al buio, come se fossero oggetti da spartire, come se fossero un bottino di guerra o peggio l’ago della bilancia che deciderà anche questioni di case e di soldi.
Anche nel caso di accordi consensuali apparentemente civili ed elastici, gli adulti decidono tutto al posto loro “tre giorni con me, tre giorni con te, un mese da me, un mese da te”.
Il nostro sistema per i bambini dimostra ogni indifferenza e inadeguatezza. I figli delle separazioni troppe volte sono “carne di porco”.
Altro che diritti del minore di cui parliamo a vanvera nei nostri convegni…
I fatti di Cittadella e tanti altri orrendi episodi ci dimostrano che il nostro mondo di adulti è fallito in tutto. I nostri figli sono soli anche quando la loro famiglia è “unita”.
Pertanto non bisogna pensare che solo le separazioni li destabilizzino.
Siamo una società che offre solo esempi negativi a tutti i livelli e che relega i bambini nelle loro camerette davanti ad un pc o a giochi elettronici.
La loro solitudine siamo noi, noi che ci riempiamo la bocca di tanti bei principi e che non siamo in grado di ascoltare i nostri figli nella vita di tutti i giorni e non solo in un lurido tribunale quando ormai la famiglia è a pezzi.
I bambini ci mandano continuamente messaggi che non siamo in grado di decodificare. Ci parlano anche quando stanno zitti. E ci mandano messaggi anche quando decidono di farla finita.
La società ha bisogno di ritrovare la famiglia, quella vera.
Ha bisogno di tornare a qualcosa di antico e di sacro: il dialogo.
Il sistema giudiziario, gli avvocati, gli assistenti sociali, gli psicologi etc. devono imparare a lenire il dolore dei bambini e giammai ad esasperarlo. I genitori devono essere i primi a capire che i loro figli non sono beni di proprietà da contendersi senza pietà ed esclusione di colpi.
Se il sistema non funziona si può dire che tanti genitori certamente non sono un esempio, anzi talvolta sono i veri assassini dei sogni dei propri figli, ancora più del sistema e della cultura sociale di oggi.
Quando è un bambino che decide di farla finita non muore solo un bambino, ma muore la speranza.
Gian Ettore Gassani
Presidente Nazionale AMI