Quando si smette di comunicare

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Acceso il computer, ero intenzionato a scrivere qualcosa di serio, oggidì. Appena letto un illuminante e attualissimo scritto di Pierangelo Schiera, risalente a 32 anni fa’, ho subito imbracciato mouse e tastiera, per stringere la presa su quei concetti essenziali ma fuggenti. Purtroppo il Fato – da sempre incosciente sovrano dei nostri giorni – fu contrario, e mi volle condurre al sito di La Repubblica, inspiegabilmente incuriosito da un video della sezione TV. Due esseri in primo piano, uno baffuto l’altro chelato, uno dall’aspetto cromatico tendente al rossiccio l’altro al giallo. Leggo il titolo. “L’aragosta gialla, una ogni 30 milioni”. Caspita, mi dico io! Un’aragosta gialla, e chi l’avrebbe mai detto! Un carattere recessivo? No, di più! Il giornalista dell’AP Television – servizio statunitense di informazione sul web – la definisce come un animale rarissimo, esaltando dunque l’immane impresa del pescatore Danny Ingram, che “ha annunciato di aver trovato l’insolito crostaceo, dalla parte superiore dorata e i fianchi di colore giallo luminoso, nelle acque della baia Narragansett, nello stato di Rhode Island”, come riportato dal lancio AGI/WSI – l’agenzia giornalistica italiana di cui è direttore Giuliano De Risi, già giornalista l’Espresso, l’Europeo e RAI. La notizia non mi sconcerta, ma è pur sempre una notizia. E, volendo, risulta anche abbastanza interessante. Tanto interessante che ci si butta subito a pesce – mi scuso con l’amica aragosta per l’involontaria battutaccia – il TG1, che non perde di certo una notizia di tale importante rilevanza – mica come gli orgia-party del Presidente del Consiglio! Recita l’articolo: “Non sarà fatta d’oro ma il valore è comunque inestimabile. Si tratta di un’aragosta speciale come il suo colore: è gialla.” Tadan! Fulmen in clausula, è gialla! Comunicazione giornalistica eccezionale. Conclusa la lettura, però, una forza misteriosa mi trattiene – contro la mia volontà, chiaramente – nell’orbita TG1. I miei occhi, infatti, si fissano sugli innumerevoli articoli correlati, tutti elencati sotto la categoria “Società”. Rimango stupito ancora adesso a scriverli. “Cane in moto, scatta la multa”, “Chicco di grandine record”, “Ralph, un coniglio da 100 euro al mese”, “Vestiti di pesce”, “Clausura pop”, “Gelato da cani”, “Tutti pazzi per gli scarafaggi”, “La tartaruga-cameraman, una star su youtube”, per finire con lo sconcertante dubbio “È già Natale?”. Avrei continuato per ore, ma c’era un’aragosta color del grano che mi attendeva, e un interessante articolo su essa da scrivere. L’immagine di Piero Schiera era quasi totalmente svanita dai miei occhi, la mia motivazione ed il mio impegno erano stati quasi completamente sostituiti da quell’interesse sconosciuto per il raccontare notizie inutili e svilenti.

Così, ignaro che esistessero aragoste gialle, e sorprendentemente colpito dal fatto che tali aragoste siano presenti in proporzione di 1/30.000.000 (la frazione rende meglio l’idea), e sempre inspiegabilmente – è necessario tenerlo a mente – mi informo sulla questione, abbandonando definitivamente il mio sociologo alla polvere degli scaffali, e le sue parole alle ragnatele del mio cervello.

Scopro che la Palinurus elephas, la cosiddetta Aragosta Mediterranea – che vive altresì nei fondali dell’Oceano Atlantico – presenta diverse varianti all’aspetto usuale, essendovi colorazioni meno tipiche, sul verde e sul rosa, ed una specie dal colore blu, presente in rapporto di 1/4.000.000. Scopro anche che l’animale – dell’ordine crostaceo dei Decapodi – è tutelato dalla Convenzione per la conservazione della vita selvatica e dei suoi biotipi in Europa – nota come Convenzione di Berna – elaborata nel 1979, e recepita persino in Italia con la legge n. 503/1981. Scopi della Convenzione sono la conservazione della flora e della fauna spontanea ed i relativi habitat, e monitorare le specie in pericolo e vulnerabili. Ciò mi conduce inevitabilmente a pensare che un’aragosta gialla sia un essere da tutelare, da conservare preziosamente, e di cui, magari, incentivare la riproduzione. Mi sbaglio.

Evidentemente, mi sbaglio. Mentre le immagini del video di AP scorrono sulle dita tozze del pescatore e sul corpo stordito del povero animale, ed io già lo immagino utilizzato per esperimenti di laboratorio, o peggio, messo all’asta e divorato da milionari affamati del suo addome dorato, ascolto le parole dello stesso Danny the fisherman, il quale afferma di voler tenere l’animale solo per esposizione. Un animale rarissimo – che se fosse un Pokemon sarebbe certamente ben preservato ed accudito dal suo allenatore – imbalsamato dentro una bacheca. Accoppato dall’uomo, che crede sempre di avere il diritto di proprietà sugli altri esseri, quelli che considera inferiori. E la memoria torna al povero Hogzilla, il cinghiale-mostro considerato leggendario di cui sono stati scoperti – fra il 2004 ed il 2007 – due esemplari, in Georgia ed Alabama (U.S.A.). Ricordo la storia del secondo, freddato da Jamison Stone, un ragazzino di 11 che lo ha inseguito per tre ore attraverso la boscaglia, prima di sparargli otto colpi con un revolver Smith & Wesson calibro 50. Le uniche colpa dell’animale erano i suoi 476 chilogrammi di peso e 274 centimetri di lunghezza, e, guardando bene le foto, non sembrava nemmeno molto più robusto del suo giovane aguzzino.

Fine.

Firma e data.

PS. (ovvero “piccole scuse” dell’autore ai lettori)

Mi scuso. Mi scuso perché capisco che qualcuno si chiederà «ma sto imbecille che cazzo ha scritto stavolta!?!?», e di certo non troverò alibi per difendermi da tale affermazione, né mi sfiancherò ad individuare possibili false motivazioni che mi facciano scalare gli specchi e che diano all’articolo un aspetto più intellettualmente maturo di fronte al pubblico, magari inventando un sillogismo idiota o fingendo un’allegoria forzata. Ho scritto quello che mi è realmente accaduto questo bel giorno soleggiato chiuso in casa, la notizia della mia mattinata e la storia di un crostaceo morto per il proprio colore – né il primo né l’ultimo, a questo mondo. Non ho fatto né più né meno di quello che fanno ogni giorno i giornali italiani che ci raccontano del “divorzio” tra Fini e Berlusconi, dei telegiornali dove Gasparri e D’Alema sputano le loro stronzate sui problemi della “parte opposta”. Né più né meno del mestiere del giornalista.

Volevo scrivere dell’università, della disinformazione, del Sessantotto, di quello che ci ha lasciato, di Herbert Marcuse, di Fabrizio De André, dei soprusi della politica – quella statale e quella universitaria –, dei soprusi di sempre, quelli sopravvissuti alle lotte ed alle rivoluzioni, della volontà palese di uccidere l’istruzione, la cultura, il futuro. Ancora una volta volevo parlare di quest’Italia tutta da criticare, di quest’Italia da cui fuggire, di quest’Italia da voler cambiare, con unghie e denti, con il vigore del pensiero e la potenza della voce. Con la forza, se necessario. E invece vi do appuntamento ad un’altra volta, con questo inutile articolo su un’aragosta arrugginita, un maiale obeso e un telegiornale vergognoso. Rimanderò la rabbia ad un nuovo giorno, tanto lei mi aspetta e mi accompagna. Sempre.

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