Quando si vive a Provinciale

Quando si vive a Westminster – da quanti anni ormai? Più di venti – anche in mezzo al traffico, o svegliandosi di notte, Clarissa non aveva dubbi, prima dei rintocchi del Big Ben si sentiva un silenzio particolare, una speciale solennità, un indescrivibile arresto, una sospensione (ma forse era semplicemente il suo cuore, indebolito, dicevano, dall’influenza). Ecco! Rimbombò forte. Prima un’avvisaglia musicale; poi l’ora, irrevocabile. I cerchi di piombo si dissolsero nell’aria – come siamo sciocchi, pensò lei, attraversando Victoria Street, Dio solo sa perché ci piace tanto, perché la vediamo così, ce la inventiamo, la fantastichiamo, la facciamo e disfacciamo ogni momento diversa; e così fanno anche le donne più disgraziate, gli uomini più miserabili, buttati su un marciapiede (inebetiti a forza di bere); e non ci sono atti del Parlamento che tengano, proprio per questa ragione, ne era sicura: perché anche loro amano la vita. Negli occhi della gente, nel loro andamento lento, faticoso, nel chiasso e nel frastuono, le carrozze, le automobili, i tram, i furgoni, gli uomini-sandwich che vanno avanti e indietro col loro passo strascicato e ondeggiante, le bande e gli organetti; nel trionfo e nel tripudio e nel canto stranamente acuto di un aereo, ciò che amava era: la vita, Londra, quell’attimo di giugno.

Perché era la metà di giugno. La guerra era finita, eccetto che per qualcuno, come la signora Foxcroft che l’altra sera all’ambasciata si dannava l’anima per la morte di quel caro ragazzo ucciso, e ora la casa sarebbe andata al cugino; o come Lady Bexborough, che aveva, dicevano, inaugurato una fiera di beneficienza con il telegramma in mano: John, il suo prediletto, era stato ucciso. Ma insomma era finita, grazie al cielo – finita. Era giugno. Il Re e la Regina erano a Palazzo. E dovunque, anche se era ancora presto, si sentiva nell’aria il fremito, lo slancio dei puledri al galoppo, il battere delle mazze da cricket: Lords, Ascot, Ranelagh e tutti gli altri campi, avvolti nella soffice garza dell’aria del mattino grigio azzurra, che, col procedere del giorno, si sarebbe diradata, scatenando per prati e declivi i puledri vigorosi che, sfiorando appena il terreno con gli zoccoli, facevano grandi balzi, giovani uomini volteggianti, e ridenti fanciulle in abiti d’organza trasparenti che, pur avendo ballato tutta la notte, eccole lì che portavano a passeggio i loro assurdi cani lanosi; e, sempre a quest’ora, anziane, riservate vedove sfrecciavano via nelle loro auto verso faccende misteriose; mentre i negozianti s’affannavano a mettere in vetrina bigiotteria e strass, e certe graziose vecchie spille color verde mare, stile diciottesimo secolo, per tentare gli americani (ma bisognava essere parsimoniosi, non si dovevano fare spese avventate per Elizabeth); e anche lei, che l’amava, come l’amava, di una passione assurda e fedele, e ne era parte, poiché i suoi erano stati a corte al tempo di re Giorgio, anche lei quella sera si sarebbe accesa, illuminata – per la sua festa. Com’erano strani, pensò entrando nel parco, il silenzio, la nebbia, il rumore, le anatre lente nel nuoto, felici, i trampolieri panciuti che si dondolavano goffamente. Ma guarda guarda chi si avvicinava, molto appropriatamente venendo dai palazzi del Governo, con tanto di catena adorna dello stemma reale! Chi se non Hugh Whitbread, il suo vecchio amico Hugh – il mirabile Hugh!

«Buongiorno a te Clarissa!» disse Hugh, con tono piuttosto enfatico visto che si conoscevano da bambini. «Dove sei diretta?»

«Mi piace passeggiare per Londra», rispose la signora Dalloway. «In realtà, è più bello che in campagna».

 

Sono queste le pagine che inaugurano Miss Dalloway di Virginia Woolf, delle pagine passate alla storia della letteratura per la delicatezza e l’intensità con cui tra Londra e il personaggio s’intesse un legame così fitto da divenire lo spazio urbano la vita. Un significato esteso a ogni elemento della società incontrato da Clarissa durante la sua passeggiata. Un significato che va ben oltre la semplice dicotomia tra campagna e città, tra lentezza e movimento. Perché per Clarissa e Virginia è proprio Londra (e non Parigi, non Roma) ad essere vita, in maniera inequivocabile e naturale: «nel trionfo e nel tripudio e nel canto stranamente acuto di un aereo, ciò che amava era: la vita, Londra, quell’attimo di giugno». Una serie analogica che affonda le sue radici non solo nella ricchezza sociale e culturale di Londra negli anni ’20, in quella diversità che sembra regalare a chi la osserva l’intero mondo, ma in quel profondo senso di appartenenza tra Virginia Woolf e la sua città, un rapporto quasi di dipendenza che vede Londra austera ed elegante ergersi e dettare effettivamente i ritmi di vita di chi la vive. E tra i due si modula un passo unisono, a tempo del rispetto dell’amore, della fiducia e della stima reciproca tra il cittadino e questa grande donna sovrana. Ed è proprio qui che nascosta, repressa sento svegliarsi in me una forma di invidia, perché questo privilegio a noi è stato negato. Perché io non mi fido della mia città, né lei si fida di me. Il nostro passo non sarà mai all’unisono, se non che raramente quando Messina decide di mostrarsi sincera, come nei suoi preziosi pomeriggi di pesca, tra lo scrosciare delle onde e determinazione delle voci di chi va per mare. Per il resto sento che andiamo in due direzioni contrarie, opponendoci forza reciproca, restando entrambe così, praticamente ferme e stanche, molto stanche. Sento invece una lotta, come chi ostina a infilarsi un vestito troppo stretto. Ed allo stesso tempo avverto la poca fiducia della Signora dello Stretto che non capisce perché io, un io che vive di noi, dovrei essere diversa da tutte le altre genti che hanno dominato e violentato il luogo. E allora Messina ha generato un cancro, pieno di metastasi sociali, pronte a divorare quando il corpo tenta di risvegliarsi, e così se pianto un’orchidea il giorno dopo sarà divelta proprio da miei concittadini. Se Messina deve morire sembra aver scelto questa volta il suicidio. Ed io invece vorrei poter girare per via Garibaldi o il Viale San Martino e vedere un luogo che mi renda orgogliosa, senza dover andare a cercare nei miti di Colapesce o nel paesaggio o nel clima qualcosa per cui valga la pena restare. Vorrei poter godere dell’architettura anche, e degli spazi pubblici, di una strada pulita, senza i rifiuti di quelle metastasi che passando ma sì va che me ne fotte la butto a terra. Vorrei guardare quei turisti sul pulmino rosso senza provare vergogna per me e pena per loro. Sono ulteriormente stanca di un amore sturm und drang con Messina, superata l’adolescenza sono alla ricerca di amori veri perché semplici e naturali. E questo cancro, che risponde alternativamente al nome di mafia o di ignoranza o di disperazione o di ignavia, è anch’esso malato e questa volta il cancro sono io, perché è questa rabbia che non mi fa arrendere, perché io so che il mio sogno e un sogno di tutti, solo che ad alcuni fa un po’ paura.