21 maggio 1992. Paolo Borsellino è procuratore aggiunto di Palermo e riceve nella sua casa di Palermo Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, due giornalisti della televisione francese Canal Plus. I due cronisti sono alla ricerca di informazioni su un boss della famiglia di Porta Nuova, Vittorio Mangano, e sui suoi rapporti con il braccio destro del proprietario della televisione privata concorrente di Canal Plus.
Due giorni dopo quella intervista sarebbe scoppiato il tritolo a Capaci. Altri 57 giorni dopo, il 19 luglio del 1992, sarebbe morto lo stesso Paolo Borsellino.
Oggi, a distanza di ventuno anni da quelle stragi, proprio mentre l’Italia si prepara per commemorare il giudice Borsellino in via D’Amelio – chi sinceramente convinto che il sacrificio di chi è morto per mano della mafia non debba essere inutile, chi per avere la coscienza a posto – quelle persone di cui parlavano Calvi, Moscardo e l’allora procuratore aggiunto sono ancora classe dirigente di questo Paese.
Non Mangano, morto in carcere nel 2000 («Mai condannato per mafia» disse nel 2008 il proprietario della tv concorrente di Canal Plus, Silvio Berlusconi) dopo essere stato condannato per mafia al processo “Spatola” istruito da Giovanni Falcone, per traffico internazionale di droga e estorsione al maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino e a due ergastoli per tre omicidi.
In quella intervista rilasciata ai giornalisti francesi Borsellino lo definiva la testa di ponte della mafia a Milano, ma per Berlusconi era un eroe perché «eroicamente, pur essendo così malato, non inventò mai nessuna cosa su di me e [per questo i magistrati, ndr] lo lasciarono andare a casa solo il giorno prima della sua morte».
Mangano fu “fattore” nella villa di Arcore del Cavaliere dal 1975 al 1976. Lì ospitava latitanti, conduceva i suoi traffici (ci sono intercettazioni telefoniche in cui Mangano vendeva partite di droga chiamate cavalli o magliette) e manteneva i contatti con le famiglie rimaste in Sicilia, mentre faceva da guardia del corpo a Berlusconi e ai suoi familiari.
Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia insieme a Berlusconi, ex senatore sacrificato sull’altare della pulizia delle liste dei candidati alle ultime elezioni politiche, aspetta la conclusione del suo processo per concorso esterno in associazione mafiosa proprio per i rapporti che intratteneva con diversi boss mafiosi, Mangano compreso. Incombe la prescrizione, che scatterà nel giungo del 2014, ma intanto i giudici di secondo grado hanno emesso una condanna a 7 anni per il bibliofilo palermitano che Indro Montanelli definiva «un uomo colto…sul fatto».
Secondo l’accusa Dell’Utri è l’uomo che sin dagli anni Settanta ha fatto da cerniera tra Berlusconi e la mafia, permettendo così che l’allora imprenditore edile ottenesse protezione da Cosa nostra (erano anni in cui in Brianza le cosche si finanziavano attraverso i sequestri di persone facoltose e il pizzo alle grosse aziende) e che Palermo avesse un collegamento diretto con l’amico intimo di Berlusconi, l’allora leader del Partito Socialista Bettino Craxi, per ottenere una legislazione favorevole a Cosa nostra.
Quando Borsellino, quel giorno del 21 maggio 1992, parlava con Calvi e Moscardo, Berlusconi e Dell’Utri erano prossimi a costruire Forza Italia dal nulla e a vincere le elezioni politiche del 1994 anche grazie all’appoggio di Cosa nostra. Un appoggio pericoloso, perché la mafia non regala mai niente ed è facilmente ipotizzabile – anche se non fosse mai dimostrato giuridicamente – che l’Italia ha avuto per quasi 8 anni un presidente del Consiglio ricattabile dalle cosche.
Oggi queste vicende sono cadute nel dimenticatoio. Si discute se Berlusconi sia eleggibile o meno secondo la legge 361/1957 che dichiara ineleggibile chiunque goda di una concessione statale. Ma una legge che dichiari ineleggibile e incandidabile chi ha avuto rapporti con la criminalità organizzata non c’è.
Sconfiggere la mafia non è solo questione di forze armate, di magistrati e di giudici. A sconfiggere la mafia può essere solo un fenomeno culturale, una netta presa di posizione della società civile contro ogni comportamento mafioso.
È questa la lezione di Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e di tutti i magistrati che – allora come oggi – fanno il loro dovere per mettere la parola fine a mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita.
Alcuni, nonostante le difficoltà, continuano a cercare la verità su fatti che sono stati definiti – guardacaso da Berlusconi – “vecchi”, come se capire una parte così importante della nostra storia recente sia uno spreco di energie e risorse.
Alcuni si attirano gli strali della politica perché non si fermano davanti a un nome altisonante e hanno la pretesa che la scritta nelle aule dei tribunali “La legge è uguale per tutti” si applichi proprio a tutti.
Intanto oggi ricordiamo Paolo Borsellino, ma non quella sua ultima intervista rilasciata prima di morire.