Borsellino era un leone, un guerriero
che non ha mai smesso di combattere
Un afoso pomeriggio di Giugno, una pila di libri da consultare ed un appuntamento telefonico che mi avrebbe inaspettatamente cambiato. Avrei parlato a lungo delle strade insanguinate di Palermo, di un’indimenticata estate di ventidue anni fa, della strage di Via D’Amelio. Nulla di nuovo, almeno così credevo.
Vincenzo Calcara, collaboratore di giustizia da oltre vent’anni, ha una voce profonda ma affabile. Dopo pochi convenevoli e qualche frase di circostanza, ha inizio la nostra lunga conversazione.
L’uomo mi invita a chiedergli qualunque cosa desideri, senza remore né paure. Io di curiosità ne ho parecchie, ma Vincenzo sembra conoscerle, così anticipa presto le mie domande.
“Sono stato educato all’omertà, alla lealtà verso cosa nostra, alla cieca fiducia nei cosiddetti uomini d’onore. Non conoscevo alternative, non esistevano altre strade: era l‘unico cammino percorribile e credevo fosse anche il più giusto”. Nei suoi ricordi non ci sono pomeriggi di gioco o passeggiate al parco: la sua adolescenza è fatta di raggiri, trame ed imbrogli. “Si sono serviti della mia furbizia. Ero un giovane astuto e loro lo sapevano. Non ero un killer, il mio ruolo era un altro. Ho ucciso una volta sola, per legittima difesa – si affretta ad aggiungere – Non ho mai amato gli spargimenti di sangue.”
Vincenzo tenta di nascondere la vergogna, ridendo imbarazzato. Il mondo di cui parla non gli appartiene più: disprezza il suo passato, ma è fiero del presente. “Non sono più l’uomo di una volta. Sono cambiato, lo sono davvero. Ho vissuto molte disavventure e per lungo tempo ho creduto che gli sbirri, la polizia, le autorità fossero il vero cancro della società. Mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo!”
La vita di Calcara non è certo fra le più esemplari: oltre ad aver preso parte ai complotti di Cosa Nostra, l’uomo ha rapinato una banca in Germania ed ha trascorso qualche anno in una prigione del luogo, tentando persino un’evasione. “Mi hanno beccato mentre scavalcavo il muro del carcere, aiutandomi con una scala. Tutta colpa del mio compagno di cella! – racconta, fingendo rabbia – Ho trascorso più di tre mesi in isolamento, mangiando cento grammi di pane al giorno, talvolta con cucchiaio di margarina. La luce veniva accesa soltanto per due ore e l’unico libro che avevo a disposizione era la Bibbia.”
Ma Vincenzo non è un criminale, non lo è più. “Hanno cercato di servirsi di me come se fossi un’appendice, incapace di riflettere, di formulare una qualsiasi opinione. E forse all’inizio era proprio così. D’un tratto però le cose sono cambiate.” L’uomo fa una lunga pausa, cerca le parole giuste, prova a ricordare ogni dettaglio. “Voglio raccontarle del giorno in cui ho capito che la mafia non era poi così forte, che forse aveva qualcosa da temere. Temeva la giustizia, i magistrati. Temeva Falcone e Borsellino, Ingroia e Dalla Chiesa. Temeva la verità.”
I criminali siciliani hanno avuto paura, si sono sentiti minacciati. A nulla è servita la ricchezza, i ricatti e le intimidazioni hanno perduto efficacia. Dietro l’apparente invulnerabilità di Cosa Nostra si celava una grande debolezza e Calcara non poteva che accorgersene. “Sentivo spesso Francesco Messina Denaro, padre del latitante Matteo, parlare di Paolo Borsellino con rabbia e disprezzo. Ricordo ancora le sue parole: di questo ʻBorsalinoʼ non devono rimanere neanche le idee! Lo diceva spesso, voleva sbarazzarsi di lui il prima possibile. Ed ecco che qui entro in gioco io.” Sarebbe toccato proprio a Vincenzo premere il grilletto, sparare al giudice con un fucile di precisione. In pochi istanti Borsellino sarebbe morto e il clan di Corleone, vero mandante dell’omicidio, avrebbe ripreso ad agire indisturbato. Quel giorno però Calcara non sparò.
“Cosa ti ha convinto a non uccidere Paolo Borsellino? Perché risparmiare proprio lui?” gli domando a quel punto, quasi dubbiosa. “Mi avevano insegnato che la mafia era invincibile, inattaccabile. Ma come può essere davvero invincibile se teme un uomo disarmato? – mi risponde candidamente Vincenzo – C’era qualcosa che non andava: ho capito di non stare affatto dalla parte della ragione e che era tempo di cambiare”. L’uomo denuncia le intenzioni di Messina Denaro, deciso a recidere ogni legame con la malavita. Vincenzo ne parla come una vera e propria rinascita, una possibilità di riscatto che ancora oggi crede di non meritare. “Borsellino mi ha accolto nella sua casa sin da subito. La sua famiglia mi ha mostrato gratitudine e rispetto e tuttora combatte al mio fianco. Non dimenticherò mai nessuno degli insegnamenti di Paolo – mi confida commosso – Se non fossi stato in grado di trasmetterli ai miei figli, la mia vita sarebbe stata un fallimento”. Smette di colpo di parlare e si abbandona al ricordo dei mesi trascorsi in compagnia del giudice. “A lui devo tutto – prosegue poi – Mi ha insegnato cos’è l’onore, quello vero. L’ho sempre immaginato come un leone, un guerriero impegnato nella più difficile delle battaglie. Una battaglia che non ha perso.”
“Com’è cambiata la sua vita, dopo le prime dichiarazioni?” chiedo con sincera curiosità. Sapevo giudice si era prodigato per garantire a Vincenzo protezione e vicinanza, ma non avevo idea di cosa ciò potesse comportare. “Venivo scortato costantemente, ventiquattro ore al giorno, da ben sedici poliziotti. Trascorrevo le mie giornate in alberghi di lusso, dotati di ogni comfort: dormivo sino a tardi e nel pomeriggio mi concedevo lunghe nuotate in piscina. Vivevo come un principe, ma ero soltanto un delinquente – asserisce l’uomo, assumendo un’aria colpevole – Lo stato ha impiegato oltre sessanta milioni di lire per mantenermi, e mentre io godevo ingiustamente del denaro pubblico, Borsellino veniva ucciso.” La rabbia, la collera e l’indignazione lasciano spazio ad una cupa malinconia: Calcara ricorda bene quel maledetto 19 Luglio, ricorda gli annunci dei telegiornali, le espressioni incredule degli astanti, le urla, la paura, l’angoscia. “Mi sembrava fosse un film di fantascienza. Non riuscivo a crederci, non volevo: continuavo a scuotere la testa nervosamente, come se quel gesto potesse scacciare le immagini di morte che mi si presentavano davanti agli occhi. Avrei voluto fare qualcosa, qualunque cosa, ma sono rimasto immobile. Fermo, quasi inerte, avvolto dal fumo di troppe sigarette, annientato dal timore di non farcela. È finita, ho pensato. Stop. Fine della corsa.” Ma non era affatto finita. Da quel giorno la famiglia del giudice Borsellino non ha mai abbandonato Vincenzo, ormai lontano dalla malavita e pronto a schierarsi in difesa della legalità.
“Si ricordi che la verità vince sempre – afferma deciso, prima di congedarsi – La mafia ha voluto uccidere la mia attendibilità, ma io ho messo in ginocchio i loro migliori avvocati. La mia unica arma era l’onestà: beh, non potevo desiderare di meglio!”.
Calcara affianca quotidianamente Salvatore Borsellino, fratello del defunto Paolo: prende parte a conferenze, convegni ed incontri, vuole ancora rendersi utile. Gli è stata concessa un’altra occasione e questa volta è deciso a farne buon uso.