Ricordiamo Pippo Fava lavorando

Molto di quel poco che ho imparato sul mestiere di cronista lo devo a Pippo Fava direttore del “Giornale del Sud”. Quotidiano di rottura in una Catania dominata negli anni ’80 dal connubio tra la borghesia mafiosa capitanata dai quattro Cavalieri dell’Apocalisse descritti dal direttore dei Siciliani nei suoi ultimi articoli e nell’ opera teatrale “L’ultima violenza”. Messa in scena dal Tetro Stabile un mese prima che venisse ucciso davanti allo stesso teatro da un commando di Cosa Nostra. Soldati scelti che su quell’omicidio hanno costruito la carriera criminale e le fortune economiche dei fiancheggiatori e mandanti morali.

 

Era il 5 gennaio 1984, una fredda e piovigginosa sera quando arrivai in via dello Stadio. L’auto era vuota perché i poliziotti di pattuglia avevano rimosso il corpo impedendo così la perizia balistica. I depistaggi erano già iniziati. Da allora non sono mai finiti. E’ il 4 gennaio del 2011, i ragazzi di Palazzolo Acreide, città natale di Giuseppe Fava, mi propongono per la seconda volta come moderatore al dibattito che precede la consegna del premio giornalistico Pippo Fava-giovani. Il premio va a Gaetano “Gato” Alessi, fondatore di “Ad Est”, giornalista senza tesserino in Sicilia. Emigrato a Bologna per pagare con la tredicesima e gli straordinari le spese per le attività editoriali a Raffadali, paese dell’ex governatore di Sicilia, Totò “de cannola” Cuffaro. Una lunga e commossa motivazione che mi sento così di riassumere: “piccoli rompicoglioni, crescono”.

Qui a Palazzolo, ancora una volta, il dibattito non è di quelli paludati e politicamente corretti come si usa in certe circostanze. Si parla delle beghe giudiziarie del padrone dell’informazione Mario Ciancio Sanfilippo e dell’attuale governatore della Sicilia Raffaele Lombardo, entrambi indagati in due diverse inchieste per concorso esterno in associazione mafiosa. Ciancio Sanfilippo in compagnia di mafiosi e imprenditori di facili costumi urbanistici. Lombardo attorniato da uno stuolo di familiari e famigli che reggono l’impero del terrore e del favore. Ne delineano i contorni gli inviati di “Repubblica”, Alessandra Zinniti e Francesco Viviano. Si parla delle stragi e della borghesia mafiosa. Del rapporto tra politica, istituzioni e braccio militare di Cosa Nostra che vede protagonista il bandito Giuliano da Portella delle Ginestre nel’47 e prosegue ininterrotto sino ai giorni nostri con i depistaggi sulla strage di via D’Amelio e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino.

L’attualità si chiama Caso Catania. La guerra di successione per la guida della Procura etnea vede in campo due magistrati inquietanti. Alessandra Zinniti narra delle prodezze dell’attuale procuratore generale di Catania, Gianni Tinebra. Alla guida della procura di Caltanissetta diede credito al pentito Scarantino e alle inverosimili rivelazioni sulla preparazione dell’attentato a Borsellino. Prese per oro colato i depistaggi istituzionali dell’investigatore capo del gruppo Falcone-Borsellino, Arnaldo La Barbera. Nel mio ruolo di moderatore-cronista pungolo il sostituto procuratore Nicolò Marino, protagonista inascoltato insieme al presidente emerito del Tribunale per i Minori, Giovambattista Scidà, della battaglia di fronte alla commissione antimafia e al Csm sul Caso Catania. Nico Marino non parla delle stragi di Palermo sulle quali indaga da quando è stato trasferito a Caltanissetta. Però si indigna quando sullo schermo gigante dell’aula comunale di Palazzolo appare una foto dell’attuale procuratore aggiunto di Catania, Giuseppe Gennaro, che sbocconcella qualcosa a casa dell’imprenditore mafioso Carmelo Rizzo ucciso nel ’97 dai suoi compari del clan Laudani “mussi ‘i ficurinia”.

Gennaro ha comprato una prestigiosa villa costruita a San Giovanni La Punta (capitale amorale dei mussi) proprio dall’impresa gestita da Rizzo per conto della cosca. Gennaro, per due volte presidente dell’associazione nazionale magistrati, in tutte le sedi, anche sotto giuramento, ha sempre negato di aver incontrato o semplicemente conosciuto Rizzo e ha prodotto carte dalle quali risulta di aver acquistato la magione non dal costruttore ma dal proprietario originario del terreno. Il pm Nico Marino non può parlare delle stragi del passato ma non nasconde la preoccupazione per il futuro della città che lo ha visto pubblica accusa nel processo per il delitto Fava. “Vedo concorrere al posto di procuratore persone che non dovrebbero stare in magistratura”. Non fa nomi. Lo sguardo di tutti corre alla foto sulla schermo. I ragazzi del premio Fava-giovani registrano tutto. La diretta è trasmessa sul web in diretta streaming. Cinque ore tra dibattito e premiazione.

Il 5 gennaio, il lavoro continua a Catania. Appuntamento alla lapide. Non c’è il freddo né l’umidità che sentivo penetrarmi sin nelle ossa 27 anni fa. Poi al centro Zo e a Cittainsieme per ricordare lavorando. Claudio Fava torna cronista. Intervista uno dei giornalisti calabresi premiati, Lucio Musolino, e il procuratore aggiunto Nicola Gratteri. Musolino traccia un clima fatto di trasferimenti e licenziamenti per mettere il bavaglio in Calabria ai pochi giornalisti liberi e coraggiosi che non si fermano alle veline di palazzo, scavano tra gli atti e svelano il volto impresentabile del potere. Gratteri teme perché i giornalisti-giornalisti in Calabria vengono bruciati socialmente dalla sovraesposizione, determinata non da quel che fanno, piuttosto da quel che non fanno i giornalisti-piacioni, i giornalisti-maggiordomi del potere costituito, procure incluse.

Nicola Gratteri è stufo di sentire ministri e premier ammantarsi di successi non loro. Gli ultimi arresti sono il risultato di grosse inchieste concluse diversi anni fa e giunte a conclusione attraverso una tempistica rallentata dalle carenze di mezzi e personale. Viviano e Zinniti tornano a descrivere il clima da porto delle nebbie che domina l’informazione e i vertici investigativi della città dove la borghesia mafiosa uccise Pippo Fava sull’altare della buona convivenza tra istituzioni e Cosa Nostra.
Ora non si uccide più. Ma si delegittima ancora. L’ingegneria sociale impone licenziamenti e trasferimenti. Come quelli patiti dai cronisti di Telecolor assunti e tollerati dal vecchio cavaliere dell’apocalisse imprenditorial-mafiosa Mario Rendo. Mal tollerati e licenziati dalla figlia del padrone dell’informazione in Sicilia – nonché investitore di risorse economiche negli ipermercati di Cosa Nostra – Mario Ciancio.

Un quadro che si chiude a Cittàinsieme, culla della Società Civile catanese. Le testate alternative dell’isola tengono una seconda sessione dopo l’incontro di Palazzolo. Vedi insieme hacker, giornalisti militanti, fumettisti come Luca Ferrara che ha ricostruito sulle sue tavole l’epopea dei Siciliani, emigranti per la libertà di informazione come Gaetano “Gato” Alessi o resistenti che di qui non li schioda neppure le bombe come Pino Maniaci di Telejato che non riceve nessun premio ma ha una grossa consolazione, un bacino di 130 mila ascoltatori nella valle dello Jato e i fratelli di Bernardo Provenzano che lo accolgono in casa per raccontare la loro verità. Questi cronisti senza tessera, questi poeti senza rima, questi giornalisti squattrinati, sono i veri protagonisti nel ricordo dell’assassinio di Pippo Fava. Siamo qui, siamo vivi, combattiamo per la verità. E’ questa la nostra vendetta contro gli assassini di Pippo Fava. Ventisette anni dopo, loro, almeno quelli che gli son sopravvissuti, non sono che ergastolani o imprenditori schiavi delle regole della borghesia mafiosa.

Gli Orioles, i Maniaci guardano fiduciosi al futuro. Lo leggono negli occhi dei Marco Benanti, delle Sonia Giardina, dei “Gato”, dei Luca Ferrara che rappresentano la terza generazione di Siciliani, anche se Luca è di Torino e Gato lavora a Bologna. Sono qui non per un premio ma in quanto autentici “scassaminchia” del potere e dei loro maggiordomi. E se è vero come è vero che il cronista mira alla comprensione non al riconoscimento, posso dirmi soddisfatto se nel mio ruolo di moderatore sono stato un disastro. Ho incalzato il dibattito sino alle scintille. Ho mostrato una foto che riapre le ferite del Caso Catania. Attorno a me vedo occhi febbrili che 27 anni fa non c’erano. Oggi sono più incazzati di me. Bello, ‘sti piccoli rompicoglioni, crescono.