«Spesso quando si parla di carcerati la gente ci risponde “rinchiudeteli e buttate la chiave“». I detenuti sono spesso considerati i rifiuti della società; irrecuperabili perché “tanto poi tornano a delinquere”: nel migliore dei casi, la spiegazione è che lo stato delle carceri italiane è così terribile da impedirne la rieducazione, nonostante la Costituzione all’articolo 27 reciti che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» e che «devono tendere alla rieducazione del condannato».
Quello su cui è difficile riflettere è che dietro a ogni detenuto c’è una famiglia, spesso con donne e bambini che subiscono, per il solo fatto di essere legati a una persona, una pena che potrebbe essere definita accessoria al carcere per chi commette materialmente un reato. «Assisterli e dare conforto alle loro famiglie è una missione, non si fa se non si è veramente convinti». E Michele, questa missione, ce l’ha insita persino nel suo cognome: Recupero.
È il presidente della onlus Crivop, un’associazione di volontariato penitenziario nata nel 2008 a Messina e che ora si occupa dei detenuti in Sicilia e Campania e che sta per aprire sedi in Calabria e Basilicata. Sua madre Pina è davanti all’ingresso per i colloqui del carcere di Gazzi. Offre una bevanda calda alle donne in fila, su un camper acquistato dall’associazione “Lelat” ci sono i giochi per i bambini e persone disponibili a scambiare due chiacchiere.
«La percentuale di persone realmente recuperate è bassa – ammette Michele – e fare questo lavoro richiede un grosso sacrificio, anche a costo di stare lontano dalla propria famiglia la domenica. Per esempio, poco tempo fa sono andato a Locri per un cineforum con i detenuti di quel penitenziario: ci siamo svegliati alle 6, abbiamo preso il traghetto, sostenuto delle spese. Però l’immagine di quelle persone che ci chiedono in lacrime di tornare è troppo bella per smettere».
Delinquere, spesso, non è una scelta per loro. Si ritrovano emarginati, senza altra possibilità per mantenere la famiglia, oppure con problemi pregressi. «Conosco un ragazzo che ha 24 anni e da 12 è in carcere – prima con il padre, poi per suoi reati – ed è preoccupato perché sta per finire di scontare la pena: cosa farà quando sarà fuori? Se torna a casa del padre rischia di riprendere a delinquere. Spera di poter andare via in cerca di fortuna. In generale tutti i detenuti che conosco sono persone rassegnate, che soffrono più che per la loro difficile condizione per quello che subiscono i familiari».
Davanti alle mura del carcere di Gazzi, nei giorni dei colloqui, ci sono le persone di cui vogliamo dimenticare l’esistenza. Il rito della denuncia delle condizioni nelle carceri non tocca mai le madri, le mogli e i figli dei detenuti. «Queste persone erano abbandonate a loro stesse – racconta Michele – Nel 2010 mi è capitato di passare davanti al carcere e di vedere donne e bambini per strada in attesa di entrare nel carcere per il colloquio. Pensai allora di fare qualcosa per loro». Davanti al portone ci sono appena quattro panchine. Nessuna copertura in caso di pioggia. Nessuno che passi a fornire un poco di acqua d’estate.