Da Forrest Gump a Rain Man, da Buon compleanno Mr. Grape a Mi chiamo Sam. Sono moltissime le produzioni cinematografiche americane che pongono al centro delle loro storie un protagonista affetto da un handicap per affrontare il tema delicatissimo della disabilità. Attori famosi come Tom Hanks, Leonardo di Caprio, Sean Penn e Dustin Hoffman, hanno impersonato uomini come tanti altri, affetti da autismo o problemi psico/motori, facendo commuovere il mondo intero e dimostrando il loro immenso talento in ruoli così difficili da interpretare. Come non ricordare il The Elephant Man, interpretato da John Hurt, che rappresenta il modo in cui la società si rapportava alla deformità del protagonista, o i problemi psichici dei pazienti ritratti in Qualcuno volò sul nido del cuculo, veri e propri prigionieri del sistema?
Hollywood, attraverso l’obiettivo delle proprie telecamere, ha mostrato al grande pubblico un mondo che spesso passa inosservato, ingiustamente. Se il successo di queste pellicole, tra incassi, premi e riconoscimenti della critica, è stato di proporzioni globali grazie al binomio “grande attore/storia commovente”, in India e in gran parte del mondo si attende l’uscita nelle sale del film Maa, previsto per il prossimo Aprile. Disabilità e cinema, quindi, si incontrano ancora, ma con una particolarità che rende questo film un vero e proprio “caso”: non è solo la storia a parlare di disabilità, è la stessa produzione a viverla in prima persona. Tutti, dalla regista agli attori, dai costumisti ai coreografi, sono portatori di una disabilità fisica, escluso due attori, per esigenze di copione. La storia, infatti, racconta l’amore sbocciato tra due giovani conosciutisi su un autobus e delle difficoltà che i due hanno nella lotta per vivere il loro sentimento. Lotta contro la società ma soprattutto contro l’ignoranza e la chiusura dei genitori di lei, assolutamente contrari alle nozze tra i due. Il motivo? La disabilità dell’uomo.
Questo scontro spingerà il ragazzo a diventare attivista e tentare in ogni modo di conquistare e far valere i propri diritti. Alla storia principale si allacciano i piccoli problemi quotidiani del protagonista: l’alloggio, i mezzi di trasporto, il lavoro. Tutto vissuto in modo tale da denunciare e, allo stesso tempo, divertire il pubblico, in perfetto stile “Bollywood”. Con questa parola si definisce una parte del cinema indiano in lingua Hindi, con un chiaro riferimento al mondo del cinema statunitense. Bollywood, parola nata dalla fusione tra Bombay e la Hollywood americana, non è un vero e proprio luogo, ma soltanto un modo con cui si è soliti chiamare il cinema indiano esportato in tutto il mondo. Sono numerosissime le produzioni così catalogate, così come altrettanto grande è l’influenza che l’India ha avuto sul resto del mondo. Bollywood è caratterizzata dalla denuncia dei mali del mondo indiano, dal raccontare la propria società e i propri costumi, esportando ambientazioni e musiche. Basti pensare al successo di “Moulin Rouge!” e di molti altri musical prodotti dagli anni ’90 ad oggi, o al trionfo di “The Millionaire”, ambientato proprio a Mumbai e vincitore di otto Academy Awards, quattro Golden Globe e numerosi altri riconoscimenti.
Stavolta Bollywood non si occupa soltanto dei problemi legati al suo mondo, ma affronta uno dei temi più difficili che la società mondiale tratta, fondendo umorismo e denuncia. La sedia a rotelle, la mancanza di una gamba o di una mano, la polio, niente ha fermato lo staff e il cast di questa produzione, che ha girato il film in tempi record nel quartiere di Madurai, nel Tamil Nadu, regione del sud dell’India, e presentato la pellicola al Festival internazionale del cinema sulla disabilità di Delhi.
Il progetto, nato dall’incontro tra Madan Gabriel, capo dipartimento del “Film and television Institute”, e alcuni attivisti del TNHF – Tamil Nadu Handicapped Federation, rappresenta una vera e propria sfida ai canoni classici del cinema indiano, e l’attesa intorno all’uscita nelle sale aumenta di giorno in giorno.
Girato in tre lingue, tamil, telugu e hindi, con sottotitoli in inglese, quale sarà la risposta del pubblico indiano ad un’opera come Maa? Se da un lato l’aver realizzato un film è una grandissima conquista, dimostrando non solo alla società, ma anche a sé stessi che la disabilità non è un ostacolo ai propri sogni e alle proprie ambizioni, dall’altro ci si aspetta la conferma del botteghino, ultimo metro di giudizio per il raggiungimento del proprio scopo.
Un film commerciale, in grado di mischiare all’ironia alcuni valori che spesso la società civile stenta a vedere. L’ignoranza, la paura della diversità, la mancanza di rispetto verso i portatori di handicap, sono tutte denunce importanti, messe in primo piano tanto dalla storia rappresentata quanto dal “dietro le quinte”. La vera opera d’arte, stavolta, non è la pellicola finita, ma la sua realizzazione, questa sorta di viaggio, durato 40 giorni, in cui non c’erano abili o disabili ma soltanto persone, uomini e donne di tutte le età, uno accanto all’altro per realizzare un sogno.
Quest’opera, a pochi giorni dal suo arrivo nelle sale, deve rappresentare un punto di partenza per tutti coloro i quali, tanto nel mondo dello spettacolo quanto nella vita di tutti i giorni, si ritrovano a convivere con la propria diversità e a combattere per essere accettati da un mondo che, sfortunatamente, sa essere crudele con tutti, senza distinzione di razza, sesso, età o religione. Allo stesso tempo, si tratta di una svolta importante nel mondo del cinema Bollywoodiano, pronto ad accettare un’opera unica e, a modo suo, rivoluzionaria. Adesso si tratta di aspettare e vedere come reagirà il pubblico. La sfida è stata lanciata: non ci sono limiti fisici in grado di ostacolare la fantasia, la caparbietà e il talento dell’uomo. L’arte è di tutti e per tutti.