Se il giornalista è complice

Scrivo come chiunque altro sui problemi di questo paese, che poi si riflettono dentro quasi tutte le città, ma mi rendo conto che è un problema. Il fatto che chiunque scriva sull’argomento, spesso per uno sfogo, può essere un problema. Non dico che a scrivere debbano essere solo i giornalisti (quelli abilitati, se non altro dall’esperienza), ma bisognerebbe spesso prendere un paio d’accortezze, come leggere i documenti ai quali ci si riferisce, o studiare bene il passato di qualcuno, o dare un’occhiata ad alcune normative nelle quali si può incappare. Questo perché la maggior parte delle volte si da per buono quello che scrive chicchessia, sia esso un giornalista che un urlatore del web. Ora: il problema nasce quando a dare la notizia zoppicante, magari inesatta o semplicemente ammiccante, è un giornalista. Oppure qualcuno che dice di esserlo magari approfittando di una notorietà piovuta dal cielo. E che ci vuole? Io, in malafede (ma con uno scopo preciso e forte della mia posizione), dico che la gente online scrive tante sciocchezze su una cosa che non sa, e magari molti, sconoscendo realmente le variabili dell’argomento, si arrendono all’evidenza, abbandonano le discussioni, fermando le proteste.

E’ successo, lo vedo sempre più spesso.

Leggo di chi – da giornalista – difende la cosiddetta “legge bavaglio”, d’accordo col fatto che le normative per la carta stampata legate al “diritto di rettifica” dovrebbero essere applicate al web, evitando di commentare il fatto che la “rettifica” di cui parla il ddl in oggetto deve essere a discrezione unica di chi viene chiamato in causa nella notizia diffusa, senza appello; e pure evitando di riflettere sulla gigantesca differenza fra la carta stampata e il web (una semplice mail per chiedere la rettifica, magari ricordando a chi gestisce il sito che la cosa può costargli fino a dodicimila euro, è già di per se una variabile abnorme). Mi fa specie, poi, leggere che individui di questa levatura da un lato facciano appello alla legge per difendere il giornalismo autentico, dall’altro non si facciano problemi ad avallare situazioni in palese disaccordo con la legge che regola i principi del corretto giornalismo (oltre che con la deontologia). Vedo addetti stampa di enti pubblici (o di società che hanno a che fare con capitali pubblici) che lavorano senza problemi a redazioni di giornali, magari dirigendole. Senza battere ciglio, e mi chiedo come facciano. Questa però è un’altra storia, che ha bisogno di un lungo lavoro prima di essere tirata fuori.

E poi vedo la tv: incappo di domenica su Canale5, osservando Federica Panicucci che, intervistando l’attuale compagna di Omar (che con Erica compose la coppia di “mostri” di Novi Ligure), la rimprovera più volte di trattare “con leggerezza” la vicenda dell’omicidio (raccogliendo gli applausi del suo pubblico ben consapevole di colpire il facile bersaglio che si è messa di fronte) e, soprattutto, ricordandole – dopo aver chiesto alla ragazza se si senta perseguitata – che i giornalisti andarono a fotografare Omar fuori dal carcere perché era loro dovere. La cosa, oltre ad essere ridicola, è anche abbastanza grave: da tempo esiste il diritto all’oblio, collocato (dalla giurisprudenza) tra quei diritti inviolabili citati dall’articolo 2 della Costituzione, diritto che si basa sulla mancata necessità di continuare a diffondere una notizia quando non è più di interesse comune, permettendo magari a chi ha scontato la pena inflittagli che la gente si dimentichi di lui, o almeno non ci pensi come ai tempi del suo reato. Peraltro il concetto è perfettamente aderente ai principi generali del diritto di cronaca, che un giornalista dovrebbe avere impressi nel cervello: io giornalista diffondo solo notizie di reale interesse pubblico, senza prendermi la briga di “crearle”, le notizie. Però, secondo la Panicucci (in versione pomeriggio di Canale5, lacrime e mascara), i giornalisti “avevano l’obbligo”…

Infine: rivedo online Corradino Mineo infuriato per il modo in cui il Tg5 intervista il giovane rampollo della famiglia Agnelli, ricordando che non si può fare giornalismo semplicemente riempiendo di complimenti la persona che viene intervistata (“anche se fossi d’accordo con Susanna Camusso – puntualizzava Mineo – troverei almeno due argomenti discordanti sui quali basare un’intervista”, argomenti da indagare come farebbe un giornalista senza sbavature). E sono d’accordo con Mineo.

Morale della favola: la confusione è solo un modo per facilitare la vita a chi tiene a nutrire un sistema sociale dentro il quale l’informazione deve seguire solo certe strade, cedendo il passo alla spettacolarizzazione dei fatti. La distrazione è il miglior diversivo. Documentiamoci sempre.