Nei giorni della sedia negata dal presidente della Turchia ad Ursula von der Leyen , Presidente della Commissione europea; nei giorni del posto negato dal direttore generale della Nazionale italiana cantanti ad Aurora Leone perché “è femmina”; nei giorni in cui il mondo del lavoro si riapre con un vuoto di perdite che penalizza soprattutto le donne: su 402.000posti di lavoro perduti , 360.000 sono femminili. Nei giorni in cui i processi per stupro continuano a rivittimizzare le donne.
In queste giornate, e senza fermarsi, è necessario aprire a scuola conversazioni sulla parità e disparità di genere, aprire sguardi diversi sulle infinite differenze che danno valore ad ogni essere umano, sollecitare ragazze e ragazzi a porsi domande sul mondo che cambia o resta patriarcalmente uguale a se stesso o forse lo diventa ancor di più, complici anche l’impoverimento o l’assopimento delle coscienze prodotti dalla pandemia.
In queste giornate incontro una classe di dodicenni della scuola media di Aci Catena. La loro insegnante, la prof. Patrizia Salerno, mi propone di parlar con loro della lingua sessista che disegna ruoli e gabbie, del linguaggio stereotipato che veste il patriarcato, che svela o camuffa pregiudizi. Ed è così che siamo partite con un primo incontro e poi con un secondo ed entrambi hanno aperto per me finestre nuove sulla nostra bella gioventù e sul valore del lavoro della scuola educatrice di parità.
Siedono armati di mascherine, in ascolto. Li chiamo “ragazze e ragazzi”, imitando il modello didattico e di approccio che Luce Irigaray, vent’anni fa, tenne per una mia classe di giovani liceali in Lombardia.
Chiedo loro se va bene così, o se è più giusto chiamarli “ragazzi” e da lì parte la nostra conversazione che attraversa i nomi delle professioni femminili, la storia tortuosa delle conquiste di parità delle donne. Recuperiamo le storie delle donne: sono con noi, fugacemente anche se vorremmo stare con loro più a lungo, Lidia Poet, Lise Meitner, Clara Schumann, Artemisia, Ada Byron, Marie Curie, Sibilla Aleramo, Tina Lagostena Bassi.
Ragazze e ragazzi mi seguono con mente limpida e senza pregiudizio mentre attraversiamo i femminili che la mente sessista vorrebbe cancellare o alleggerire di valore; parliamo di parole che nell’immaginario collettivo “suonano male”, ma sono corrette e soprattutto fanno esistere le donne rese invisibili dalla storia, anche sui libri, da un immaginario che disconosce le loro battaglie e contributi alla costruzione di questo mondo.
Utilizzo pagine di giornali diversi e chiedo loro di aiutarmi a correggere la lingua sessista. Lo fanno con una naturalezza ed una sicurezza che fa sperare. Osiamo entrare nel campo del cognome materno e la loro apertura a cogliere il senso della parità è straordinaria. O forse no, è magnificamente ordinaria. Ascoltano la storia del nomen e del cognomen delle donne romane. Sono pensosi. Ci riportiamo al nostro tempo.
Prende la parola Salvatore: “La madre avrebbe anche più diritto a dare il cognome perché ha portato il figlio per nove mesi”. “O almeno in parità” aggiunge, mediando.
Ritorniamo ai nomi delle professioni. Dice Giuseppe che “è normale” chiamare avvocata l’avvocata”. “E come dovresti chiamarla? Non chiami avvocata l’avvocato maschio?”. Dice Sofia che suona male “ministro” detto di donna, non “ministra” e che la consonanza con “minestra” è solo “una scusa”. Ridono divertiti.
Da qui si deve partire e oggi so con chiarezza che ce la possiamo fare: certo questo è un terreno lavorato nel tempo da una brava e sensibile insegnante. Terreno giovane, che nel mondo continuerà a dar frutto dei semi di parità che si piantano a scuola. È questa è la scuola di parità che ci fa sperare.
Pina Arena