Ho conosciuto Ninni Noce, il padre di Stefania Noce, nell’estate del 2012, in occasione del Nebrodi Art Fest, a pochi mesi del brutale assassinio di sua figlia e del suocero per mano dell’ex fidanzato. Di Ninni mi colpirono, allora, la sua semplicità, un leggero senso di spaesamento nel rivestire un ruolo da “protagonista”, ma anche la disponibilità a parlare di un fatto tanto forte quanto innaturale come la sopravvivenza ai propri figli, ancor più doloroso viste le circostanze cruenti in cui tutto si è consumato.
Ninni, al di là dell’esito processuale che ha condannato l’omicida di tua figlia all’ergastolo, riconoscendo la premeditazione, questa sentenza mi sembra importante per due questioni: la prima è che, per la prima volta, entra in una sentenza il concetto di femminicidio come reato specifico contro le donne; la seconda è che è stata ammessa come parte processuale il centro antiviolenza Thamaia, un riconoscimento che è, quindi, una legittimazione dell’operato svolto da questi centri. Mi sembra un bel passo in avanti, non credi?
Premetto, se mi è concesso, di non avere mai avuto stima per le istituzioni, fiducia ancora meno, specie in materia di cosiddetta “giustizia”, eufemismo presuntuoso racchiuso in un mero compendio di leggi e norme. Detto questo, non avendo ancora letto le motivazioni della sentenza, non ancora pubblicate, tuttavia sono rimasto davvero sorpreso per la condanna all’ergastolo in primo grado. In qualche modo farà giurisprudenza, ma la “giustizia” prevede altri gradi e questo bisogna considerarlo. E siamo in Italia, in Sicilia nella fattispecie. Non farmi dire oltre. Per quanto riguarda l’associazione Thamaia il loro contributo è stato fondamentale poi per molti aspetti, non solo per quello legale.
Tua figlia era considerata da tutti una donna impegnata politicamente, colta e sensibile alla questione femminile. Voglio dire che aveva tutti gli strumenti umani e culturali per cogliere i segnali del disagio psicologico del suo ex fidanzato. Se ne avvide mai? Ne parlava con te o con la madre?
Stefania aveva col suo ex un rapporto con alti e bassi imputabili a qualsiasi giovane coppia. Riferiva delle loro crisi, ne soffriva e ne trattava con noi, ma mai con particolare allarmismo. Non ha mai riferito episodi di violenza. Del resto Stefania era una donna libera, sin da ragazza. Ha sempre meritato fiducia per ciò che faceva, perchè ha sempre dimostrato più che maturità nell’affrontare tutte le sue cose. Tuttavia la tua domanda è molto interessante, a mio avviso, perchè racchiude in sé un’eloquente e didascalica risposta: il problema del sessismo, del machismo, del femminicidio eccetera non conosce ceti, classi sociali o religiose. E’ una questione più ampia che investe l’educazione. Ecco, a questo io demanderei meglio le cosiddette istituzioni; sempre, però, a partire dalla famiglia che è l’agenzia educativa per eccellenza. Col senno di poi, alla luce delle dinamiche dei fatti e delle indagini svolte, è emerso che Loris Gagliano detenesse in tutta libertà, o quasi, diverse armi bianche, senza nessuna autorizzazione o titolo, presso l’abitazione dei genitori in cui viveva. Questo è uno spunto interessante circa talune responsabilità educative che si annidano in famiglia, dove tutto viene coperto, anche passioni che, alla luce di quanto accaduto, si sono rivelate letali. Il silenzio per coprire la vergogna, lo scandalo, con un velo, ma che, di fatto, alimenta comportamenti criminosi.
Ecco, il punto cruciale sta proprio tutto qua, nell’educazione familiare in primis. Il femminicidio è un reato che si consuma trasversalmente alle classi sociali, segno questo di una profonda incapacità di vivere serenamente il confronto e la relazione con una donna e generando relazioni malate. E spesso i centri antiviolenza coprono i vuoti lasciati dallo Stato. Precisiamo meglio quali compiti dovrebbero assolvere le istituzioni?
Le istituzioni non hanno la bacchetta magica: ricordiamoci che sono fatte da persone che andrebbero, anche e soprattutto, meglio educate, sensibilizzate. E non è facile in un Paese che manda messaggi stereotipati e fuorvianti attraverso i media e attraverso le sue agenzie educative, anche quelle religiose e la nostra [la religione cattolica, ndr] in particolare. Viviamo in un paese patriarcale, dove il maschilismo impera sotto ogni forma, col placido , ingenuo e spesso complice consenso di molte donne. Non a caso Stefania, nell’esordio dei suoi articoli, appena diciottenne, dedicava le sue prime righe “soprattutto a quelle donne che si sono arrese”. Ribadisco: è alla famiglia e alla scuola che viene affidato il compito e lo sforzo principale, quello di gettare nuove basi di convivenza. Si possono praticare piccole rivoluzioni copernicane, a scuola come in famiglia, smettendo ad esempio di fare rimproveri ai nostri figli dicendo “smettila di piangere come una femminuccia” o fare altri ammonimenti con un chiaro riferimento discriminatorio nei comportamenti di stampo sessista. Parimenti si dovrebbe smettere di nutrire aspettative da macho nei confronti dei bambini, spronando in loro atteggiamenti protettivi e da duri nei confronti delle femminucce. Questi sono, a mio avviso, gli stereotipi da combattere, insieme a tutto il linguaggio che si è sviluppato attorno a questa concezione discriminatoria e discriminante della società. Il campo è davvero vasto e il cammino piuttosto lungo, mi rendo conto. Pur tuttavia voglio credere in una svolta e le premesse mi sembra che ci siano. Almeno un poco.
Che padre sei stato e che rapporto avevi con tua figlia?
Purtroppo non abbiamo convissuto per tutto il tempo della sua crescita. Alcune vicende della vita ci hanno separato per qualche tempo. Cionondimeno credo di essere riuscito a imbastire con lei un rapporto più che accettabile, anche grazie al lavoro della madre. Con Stefania si poteva parlare di tutto, e quando dico tutto non escludo proprio nulla, tabù compresi. La consideravo davvero la mia proiezione nel futuro, quello che ciascun genitore vorrebbe, insomma. E senza compromettere nulla della natura. Per me è stata una figlia, d’accordo. Ma ancor di più una sorella. A volte anche una madre. Volentieri era amica e, comunque sempre compagna. A tutto tondo. Così, per quanto mi riguarda, mi piace ricordarla. E mi manca tanto proprio per questo.
Per concludere, è da poco uscito un libro che racconta la storia di tua figlia. Lo hai già letto?
Sono tante le iniziative che sono sorte e continuano a proporsi spontaneamente in memoria e in ricordo di Stefania. Ventiquattro anni vissuti in assoluta solare libertà in un anonimo angolo del profondo sud. Credo sia stato questo, in qualche modo, a fare interessare di lei. Serena Maiorana, l’autrice del libro, ha l’età di Stefania. Non la conoscevo, ma quando l’ho incontrata e conosciuta, su proposta della nostra consulente legale, io e la mamma di Stefania non abbiamo saputo dire di no, ascoltate anche le intenzioni e le motivazioni sottese. Abbiamo letto le bozze in pre-stampa e abbiamo, nei limiti, supervisionato, corretto e consigliato. Lo trovo un ottimo omaggio alla sua figura e credo potrà, insieme ad altre iniziative, contribuire alla formazione di una nuova cultura del vivere. Ci tengo comunque a precisare che né io, né la mamma di Stefania abbiamo un interesse economico nell’uscita del libro. Abbiamo solo dato la nostra testimonianza e l’autorizzazione, assieme a qualche altro caro amico e conoscente. Tutto qui. Il libro sta avendo un buon successo editoriale e questo, ovviamente, mi fa molto piacere.
E’ passato quasi un anno dalla prima volta che incontrai Ninni Noce. E lo trovo un uomo più forte, che ha guardato in faccia il suo dolore, non senza difficoltà. E Stefania, caro Ninni, mancherà anche a noi, che abbiamo ancora bisogno di donne forti come tua figlia. Per continuare a sperare che si possa essere donne e uomini migliori.