Stessa sabbia

“Brutta cosa”, mi dice.

“Bruttissima”, rispondo.

Andiamo avanti per due minuti, poi chiudiamo. Nel chiedermi se avevo visto quel che era successo alla Playa di Catania avevo risposto di sì, ma mi rendevo conto di averlo fatto come fosse un passaggio di retorica senza vene in corpo. Poi per quei due minuti mi sono fermato.

Poi ho ascoltato.

Questi poveri uomini, queste povere donne, questi volti di Cristo e di Allah, figli di un Dio pieno di libertà, hanno scambiato la loro spiaggia per un’altra. Identica, lo stesso mare. Lì, però, la vita stava frantumandosi con la sabbia. Hanno scelto l’ignoto, e l’ignoto li ha inghiottiti. La sabbia è finita in mare.

Da questa parte del mare, come ricorda Gian Maria Testa, non c’è la Merica. Non c’è nessun miracolo ad aspettare i migranti.

Sei uomini volevano fuggire dalla barca agonizzante, ma non sapevano nuotare. Hanno abbandonato le vite lì dove i catanesi portano i figli a giocare, dove insegnano loro a nuotare, ironia della sorta. Un luogo così comune, rilassante, da risultare avverso alla morte. Ma la morte non ha ritegno. Come l’uomo.

Così quando leggi dei morti e della Playa di Catania allontani la notizia, perché non è roba tua, non può essere. Io vado al mare, non cerco la morte. Non c’entra nulla la morte. Quella notizia che fa da capo ai giornali sul web non può essere reale.

Poi Dino mi chiama, mi parla di una “brutta cosa”.

L’allarme l’ha dato il titolare di un lido, i corpi li hanno visti i bagnati.

Dall’altra parte del mare gli uomini lottano per sopravvivere. Mentre gli americani mettono le antenne che parlano di guerra da questa parte del mare, e investono denaro, fiumi di denaro, dall’altra parte del mare pensano a sopravvivere. Sei ragazzi, sotto i trent’anni, hanno lasciato questo mondo incapace di fermarsi a pensare.

Una brutta cosa davvero, Dino.