Rabih è un figlio del Mediterraneo. Nato a Palermo da padre tunisino e madre di origine algerina, una berbera. Da piccolo vive qualche anno in Tunisia dove imparare l’arabo. Torna a Palermo per finire gli studi. Vive nel ventre poco materno di questa città difficile, spesso ostile. Ne assimila tutte le contraddizioni, forse non se ne accorge nemmeno. Ha venticinque anni Rabih, e in lui, per me che gli parlo, vedo alternarsi l’uomo, con una valigia già piena di esperienze; e il ragazzo, con il suo senso di incompiuto, con la scommessa lanciata verso il futuro.
Impara a convivere fin da subito con le offese facili che i bambini sanno elargire con grande generosità, quando non guidati all’accoglienza. Così impara subito che lui è un diverso: Rabih è “u turcu”.
“Sai, adesso questo grande conflitto interiore si è un po’ attenuato. Ma c’è stato un momento delle mia crescita in cui ho operato un rigetto verso la mia identità italiana. Io sono nato e cresciuto qui. Io mi sento anche italiano. Sento di appartenere a tre culture: quella italiana, quella tunisina e quella algerina. Questo crea conflitto interiore, crisi di identità. E’ come se vivessi all’interno di un limbo culturale, dentro una sospensione. In definitiva non sono accettato né dagli italiani, né dagli arabi. Io sono uno straniero, non appartengo a nessuna terra. Questo conflitto l’ho riversato nella fotografia, la mia passione, anche se Palermo non offre grandi stimoli creativi”.
I tuoi hanno tentato un condizionamento culturale?
Si, mio padre e mio nonno soprattutto non volevano che subissi l’influenza della cultura europea, avendo loro vissuto il periodo del colonialismo francese.
Sai non sono mai riuscito a comprendere questo razzismo tra tunisini e siciliani che sono legati da millenni di storia. Mi piacerebbe fare un appello a entrambi perchè in fondo siamo figli di uno stesso popolo, quello mediterraneo.
Com’è l’Europa vista dal nord Africa?
E’ un Eldorado sospeso sul mare: tu lo vedi ma non lo puoi toccare. Immagina il dolore che prova ogni giorno un giovane tunisino o un algerino nel vedere la costa dell’Europa al di là del mare. Perchè dalle coste della Tunisia si vede l’Europa, si vede Pantelleria. Immagina quegli uomini che vogliono sognare e non possono toccare quell’isola a qualche chilometro di distanza.
Come sono arrivati i tuoi in Italia?
In modo piuttosto tranquillo, molti anni fa. Mio padre era un artigiano, un calzolaio. Un giorno venne a trovarlo un marocchino che cercava manodopera per conto di un italiano. Quando mio padre giunse qui gli fu dato il benvenuto con l’omicidio di Dalla Chiesa: mio padre viveva a pochi metri da dove avvenne l’eccidio. Ti lascio immaginare la sua sorpresa: lui aveva lasciato il suo paese quando era prossimo ella destabilizzazione, erano gli anni della rivolta del pane, e invece si trovò immerso nel clima degli omicidi eccellenti che si consumarono in quegli anni.
E anche per mia madre fu così: aveva il pancione dentro cui stavo io e, mentre stava facendo la spesa al Capo, (uno dei più affollati mercati storici di Palermo n.d.r.) improvvisamente iniziarono a sparare.
Lo osservo mentre parla, lo ascolto attentamente. Le sue contraddizioni stanno tutte chiuse fitte nelle sue parole uscite di fretta, ma non sono mai superficiali. Più che una fretta è un’urgenza. Parla di un “noi” collettivo, di questa mafia che “ci” caratterizza. Dentro quel “noi” c’è una cultura mafiosa che non gli appartiene, la sente sulla sua pelle come una piaga, esattamente come un qualunque figlio di questa città complicata. Parla della nostra Costituzione come di qualcosa che gli sta particolarmente a cuore. “Ma se guardo al posto dal quale provengo, ti dico che mi sta a cuore anche la libertà del nord Africa”. E’ cosciente delle contraddizioni che vive dentro di sé. Appartiene a tutti i luoghi e a nessuno nello stesso istante. Non sa risolversi in questo parterre di identità. Si emoziona, la voce si fa più bassa e grave. “Adesso con te, per esempio, mi sento un nordafricano. Ma quando sono con un nordafricano mi sento italiano, quando sono con un tunisino mi sento un algerino e con un algerino sono un tunisino”.
Gli chiedo cosa rappresenta l’Unione Europea per lui: mi sorprende la sua risposta, perchè mi parla allo spirito di fratellanza con cui nacque l’idea dell’Europa unita, un’idea di solidarietà fra i popoli. Mi chiedo quanti dei nostri ragazzi italiani conoscono questi principi ispiratori che sono fondamento dell’Europa.
I dissidi nati dagli scontri fra le identità culturali che lo abitano saltano fuori da quel che mi racconta di sé, di un amore ora finito e che forse ancora gli brucia, con una ragazza inglese. Non comprende, la ragazza, quella cultura così distante dalla propria. Rabih ne avverte la minaccia, il tentativo di colonizzazione culturale. Forse il loro amore finisce per questo. Lui non dice, io non chiedo oltre.
Chi è la donna per te, Rabih? Che ruolo pensi debba avere?
Inizialmente pensavo in modo più vicino alla cultura nordafricana. Poi col tempo, crescendo, mi sono fatto una concezione mia, altra. Poi, guarda, in Tunisia la donna non ha un ruolo subalterno, ma diverso rispetto al nostro. E’ complementare all’uomo, non contrapposta. Questa ragazza con cui stavo, per esempio, voleva portare la rivoluzione sessuale in Tunisia. Secondo me era una forma di violenza culturale oltre che psicologica. Ecco, anche lei aveva questo atteggiamento di superiorità tipico dei colonizzatori che vengono a importi a casa tua una cultura diversa. Ma se imparassimo a confrontarci senza sovrapporci, forse ne verrebbe fuori una cultura superiore, lo scambio fra i popoli è sempre arricchente.
Commentiamo insieme l’ipocrisia del “nostro” Paese, di questa Italia che dà la cittadinanza ai morti in mare, mentre accusa i vivi di clandestinità. Parliamo degli effetti devastanti di un’idea malsana della globalizzazione che universalizza lo sfruttamento e redistribuisce i profitti fra pochi. Di come ci stiamo sempre più imbarbarendo. Di questa Sicilia che Rabih percepisce come una terra del mito, posta al centro del mediterraneo. Mi dice che una Sicilia che perde il senso di vicinanza che accomuna siciliani e nordafricani nella stessa storia lunga millenni, “ha semplicemente perso la sua anima”.
Chi sono i tuoi amici?
Il mondo sono i miei amici. Ho passato il pomeriggio con una peruviana, stamattina con una portoghese e il pomeriggio con uno sciamano brasiliano. La sera la sto trascorrendo con te. Questo è molto bello. In un certo senso Palermo mi sembra che sia al centro del mondo. Se ci pensi è come avere fatto il giro del mondo stando qui, senza muovermi. Cerco di attorniarmi dalla multiculturalità che questa città offre, cerco di sviluppare la mia creatività dal confronto con le culture con cui vengo in contatto.
Cosa sogni?
Sogno molte cose. Sogno di godermi il mondo. Vorrei viaggiare, andare al Polo Sud o andare in Groenlandia. Ti può sembrar strano che un figlio del Canale di Sicilia, del Mediterraneo, voglia visitare luoghi freddi, freddissimi. Sai, a volte capita di fare pensieri di appartenenza nazionalistica, allora guardo la terra: è al centro dell’universo. Penso che io faccio parte dello stesso pianeta così come ne fai parte tu o un sudamericano o un asiatico. Vorrei invitare coloro i quali fomentano le guerre a prendere in mano un mappamondo per rendersi conto di quanto siamo piccoli nell’universo. Forse i torbidi nazionalismi cesserebbero di esistere.
Cosa ti piace di più e cosa di meno di Palermo?
La multiculturalità. La convivenza delle culture che si mescolano.
La cosa brutta, invece, è questa arroganza mafiosa manifestata non dai mafiosi, ma dai palermitani. Tutti noi abbiamo atteggiamenti mafiosi ma non sappiamo riconoscerlo. Per esempio se vediamo qualcuno per strada che fa qualcosa di sbagliato non parliamo. Al mio paese si chiama omertà.