Si è appena concluso a Palermo il pride nazionale, durato più di una settimana e sempre molto affollato: incontri, eventi, dibattiti e spettacoli hanno richiamato moltissime persone, famiglie intere, bambini, giovani e meno giovani. E’ stata una bella festa, culminata con il corteo colorato e partecipato di sabato scorso. Mentre mi aggiravo dentro il complesso dei Cantieri Culturali della Zisa ho avuto modo di incontrare e parlare con alcune persone, con donne soprattutto. Mi piaceva di più il loro punto di vista (non ce l’abbiano gli uomini per questo). E’ un tema ancora troppo poco trattato, anche quando si parla di un argomento ancora oggi, anno 2013, discriminato da una classe politica che addita l’omosessualità con grossolana volgarità. Che si trattasse di ascoltare i pensieri di donne lesbiche è, per me, solo il desiderio di tirar fuori quello che normalmente viene solo appena accennato. Personalmente non mi sono mai presentata a qualcuno dicendo: “piacere, sono eterosessuale”, motivo per cui non amo troppo appiccicare etichette alle scelte intime degli altri. Preferisco parlare di persone, più che di lesbiche, gay o trans. E di come vivono i loro disagi quotidiani, le difficoltà, le amarezze della vita viste dalla loro particolare angolazione che, in questo caso, coinvolge la sfera sessuale. Così mi capita di incontrare Rosi a cui chiedo perchè, secondo lei, l’omosessualità femminile è ancora un tabù, molto più di quello maschile. A me sembra una discriminazione dentro la discriminazione. “La disparità nell’affrontare il problema dalle due angolazioni è in parte imputabile alle donne stesse: abbiamo spesso mancato di coraggio nell’affermare i nostri diritti e la nostra sessualità. Siamo rimaste in disparte più degli uomini, affidando a loro soltanto il campo di battaglia. E loro hanno preso il sopravvento, anche nelle lotte per i diritti degli omosessuali. Questo è anche frutto del diverso tipo di educazione ricevuta in cui viene marcata la differenza a seconda che si educhi un figlio maschio o una femmina; ma bisognerebbe sempre ricordare che i figli, tutti, sono figli delle donne, nascono dalle donne. Mi chiedo e le chiedo cos’è per lei il femminismo? Esita un momento, gli occhi hanno fatto un balzo all’indietro, nel passato delle sue lotte. E infatti mi risponde: “Fin da piccola ho vissuto e praticato l’associazionismo; da adulta ho frequentato le stanze di partito. Ho sempre militato a sinistra ma ho avuto modo di osservare che, anche in questi ambienti, che per loro natura dovrebbero essere progressisti, riproducono al loro interno le stesse vecchie dinamiche di contrapposizione maschile/femminile. C’è una competitività molto forte e questo modello, purtroppo, è stato assimilato e riproposto anche dalle donne stesse, finendo poi molto spesso per schiacciarle”. Intanto incontro pure Danila e anche lei ha qualcosa da dire sul punto: “La nostra è ancora una società maschilista che ha una concezione proprietaria dei rapporti con la donna. E’ così nei confronti di sorelle, moglie, fidanzate e quant’altro”. “Ed è in questo filone che si inseriscono e si verificano i femminicidi” – interviene Rosi. Prosegue Danila: “Cos’è per me il femminismo? Un’utopia, purtroppo, ma che non smetto di praticare e perseguire. Sono figlia di una femminista. Ho partecipato in braccio a mia madre alle manifestazioni, respirando fin da bambina le sue battaglie. Mia madre, donna divorziata, ha pagato a caro prezzo le sue scelte, che è identico, ora come allora: uomini che vendicano la loro rabbia con il mancato o tardato pagamento degli alimenti, per esempio. E tutte le tipiche ritorsioni che un uomo “abbandonato” non esita a riversare sui figli come unico mezzo per colpire le loro ex donne”. “So che questo di solito è un momento cruciale e difficile: ti ricordi il momento in cui hai comunicato in famiglia,se lo hai fatto, di essere lesbica?” – chiedo a Rosi? – “In realtà non c’è stato un momento preciso in cui è stato verbalizzato, non ho mai fatto una comunicazione ufficiale. Il rapporto con i miei genitori si è sempre svolto con la massima naturalezza sebbene io non provenga da una famiglia di elevato ceto culturale. Mio padre è un contadino e, in casa, a parte le enciclopedie e qualche altro volume, non posso certo dire che ci fosse una biblioteca; però l’accettazione della mia omosessualità è avvenuta, forse in modo tacito, ma non ho mai avuto scontri per questo. C’è stato un solo momento in cui mia madre mi ha chiesto se mi piacessero le donne, ed ha coinciso con la morte di sua madre, mia nonna. Ricordo che fu un momento importante e doloroso per me quello, per due motivi: ero ancora molto giovane e al dolore per la morte di mia nonna si sommò quello per la chiusura della mia prima storia. Percepii istantaneamente che rispondere a quella domanda, in quel momento, avrebbe impedito a mia madre di elaborare il suo lutto spostando l’attenzione da se stessa a me. Così risposi di no, con fermezza. Ma, dopo, non ho mai nascosto le mie storie, d’amore o meno. Intanto mi fermo a osservare Danila mentre è impegnata con i suoi due bambini. “Sono figli miei e della mia compagna. Vivono con noi, siamo una famiglia” – ci tiene a precisare orgogliosamente. E’ una madre come tante, forse un po’ ansiosa: non li perde d’occhio un solo momento. Penso che se avessi avuto dei figli non avrei esitato ad affidarli alle sue cure. Mentre parliamo si allontana molto spesso, scusandosi con me per le frequenti interruzioni. Ma leggo nei suoi occhi e nei messaggi non verbali che mi invia tutto l’appagamento per un bisogno profondo come quello della maternità. Una maternità voluta a tal punto da portarla all’estero per praticare la fecondazione eterologa che la legge 40 ha vietato in Italia, disumanamente negando a molte donne la possibilità di essere madri. “Ci sono tanti figli che sono nati dentro matrimoni “regolari”, magari venuti al mondo e non desiderati” mi dice allontanandosi ancora una volta per togliere un ramo dalle mani di suo figlio con cui rischia di ferirsi, una punta di amarezza nella voce e nello sguardo. Quanto amore sprecato, mi viene da pensare. I bambini se ne infischiano delle differenze, delle etichette stereotipate coniate degli adulti. I figli di Danila e della sua compagna giocano tranquilli con i figli di altre donne, lì, nello spazio allestito per i più piccoli dentro il Pride Village, all’ombra degli alberi. Penso che tutti quei bambini hanno dalla vita la grossa opportunità di respirare le differenze vissute con spontaneità. Saranno uomini e donne migliori, abituati a misurarsi con un mondo colorato da tutte le sfumature della diversità: la diversità che rende ogni essere umano unico. Saranno uomini e donne più ricchi senz’altro. Chiedo ancora a Rosi cosa ne pensa del recente provvedimento del comune di Palermo che ha istituito il registro delle unioni civili aperto anche alle coppie omosessuali “E’ senz’altro un’ottima cosa. Ma se non verranno adottati dei provvedimenti attuativi che rendano effettivamente fruibile e concretamente applicabile il provvedimento, si rischia di fare solo una bella dichiarazione d’intenti destinata a rimanere sulla carta”. Anche Danila accoglie favorevolmente il provvedimento e aggiunge che “è importante cominciare anche dalle piccole cose, come quello di prevedere una nuova modulistica ripensata in funzione delle altre figure parentali che chiedono l’accesso ai benefici assistenziali previsti dal comune per le coppie di fatto”. E’ un cammino faticoso e lungo, quello che investe il campo dei diritti. Anche di quelli che pensavamo consolidati come il diritto allo studio per tutti: risale agli anni ’70 il provvedimento legislativo che eliminava le odiose “classi differenziali”, sancendo una situazione che, di fatto, la scuola italiana praticava già, e dimostrando una lungimiranza che andava oltre i limiti dati dalle leggi in vigore. Anche quello era razzismo, ed era praticato dallo Stato attraverso la sua scuola. Serafina Ignoto
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