Sulla strada della mafia

A volte capita di fare un errore molto banale, per quanto comune: un po’ tutti pensiamo che le cose possono cambiare solo se si mette all’opera la macchina statale, le istituzioni. In qualche campo è così, ma non sempre la responsabilità di tutto è da attribuire allo Stato. Spesso anche noi, comuni cittadini, possiamo agire nel quotidiano, fare qualcosa per la nostra regione, la nostra città, la nostra zona.

Don Terenzio Pastore è una persona semplice, più di quanto già non sembri: parlando con lui ti senti avvolto da uno stato di pace, e il suo fare gentile aumenta ancora di più la piacevole sensazione. Don Terenzio è molto attivo sul territorio cittadino: ha partecipato al volantinaggio di diverse zone “difficili” di Messina, e organizza regolarmente degli incontri nella sua Parrocchia per sensibilizzare i fedeli.

Sono contento: da quando è iniziato il seminario per la legalità vedo che tra i giovani c’è una notizia che circola; li vedo attivi, vivi. Non abbiamo la stessa risonanza che può avere una Mediaset quando manda in prima serata Il capo dei capi con un Riina in versione eroica, ma nel nostro piccolo ci stiamo muovendo al meglio.  Pensa, l’altro giorno un bambino mi ha chiesto alcune notizie e dell’altro materiale sulla mafia, perché voleva scrivere una tesina al riguardo: la ritengo una cosa meravigliosa, dato che solo conoscendo l’avversario è possibile sconfiggerlo“.

La mafia quindi è aiutata anche dal decadimento culturale che sta investendo la nostra società?

Il generale Dalla Chiesa disse una cosa verissima negli anni ’80: la mafia è figlia dell’ignoranza, e sfrutta il bisogno dei cittadini di avere dei diritti basilari, fondamentali. Se un determinato servizio te lo offre per bene lo Stato, della mafia non te ne fai nulla, non ti rivolgi a lei; è lo Stato che deve assolutamente venire incontro ai cittadini. I mafiosi non sono persone stupide; spesso, anzi, sono tra i migliori nei loro rispettivi campi, avendo tanti cervelli fertili. Per questo agiscono così“.

Qual è il modo più adatto per un cittadino comune per risolvere questa piaga?

Basta non piegarsi alla mentalità mafiosa, al sentire mafioso; ci sono dei gesti che non sono propriamente di quel ramo -come ad esempio chiedere un favore per una raccomandazione e così via-, che però non sono assolutamente legali. Evitando quelli si fa già un grande passo in avanti“.

Crede che in un futuro relativamente vicino possa cambiare qualcosa?

Non lo so: io ho lanciato un sasso, si sono smosse le acque. Sicuramente con la collaborazione di tutti qualcosa cambierà. È necessario un impegno massiccio, e con l’aiuto del Signore sono certo che potremo fare qualcosa per migliorare tutti insieme“.

È dello stesso avviso Maria Antonella Cocchiara, docente dell’università di Messina nella facoltà di Scienze politiche: “Conoscere è fondamentale, senza l’adeguata conoscenza del problema dal punto di vista storico non potremo mai sconfiggere la mafia. Secondo me andrebbe istituito un corso di laurea di Storia della mafia, che sarebbe utilissimo per istruire i ragazzi su questa piaga della società“.

La Cocchiara è specializzata sopratutto riguardo le donne di mafia, quelle che, secondo molti, non sanno nulla della vita della famiglia… e della Famigghia.

Le donne mafiose, secondo uno studio, sono più restìe a parlare dei loro compagni: questo accade perché sono più legate -in quanto donne, appunto- alla famiglia in sé stessa. Sono consapevoli del loro ruolo, trasmettono i “valori” di Cosa Nostra“.

Ma la situazione non è sempre stata così chiara, prosegue la professoressa: “Prima le donne non apparivano, sembrava che la mafia fosse una cellula unisessuata: solo uomini, mai le mogli coinvolte. Il loro ruolo è stato costantemente sottovalutato, pensando alla donna come una sorta di oggetto alla mercè del clan, completamente soggetta alle sue leggi. Invece non è così, e gli esempi (positivi e negativi) sono molteplici: è giusto sottolineare soprattutto gli esempi positivi“.

Uno dei migliori esempi di queste parole è Piera Aiello, testimone di giustizia (assolutamente da non confondere con i collaboratori di giustizia: lei non ha commesso alcun reato, ha semplicemente deciso di denunciare fatti di cui era a conoscenza); nel 1991, per lottare attivamente contro la mafia, fu costretta a cambiare radicalmente la sua vita: dopo la brutale uccisione del marito Nicolò Atria, decise di cominciare a dire tutto ciò che sapeva sulle famiglie di Partanna, il paesino nel trapanese che ha visto crescere sia lei che Rita Atria (sorella del marito, anch’essa simbolo della lotta contro la mafia; la Aiello -infatti- è presidentessa di un’associazione che porta a lei dedicata).

Piera ha cambiato nome, dati personali e vita in generale: eppure, non cambierebbe nulla di ciò che ha fatto; mettersi di traverso contro lo strapotere mafioso locale (rappresentato da gente a lei molto vicina) le ha causato parecchie cose negative, ma alla fine dei conti non si sente un’eroina: “Combattere la mafia è un dovere di tutti noi, secondo me: io sono assetata di giustizia, per questo mi sono comportata così e lo rifarei di nuovo. Non tutto è perfetto, sia sul piano ufficiale che su quello personale, per carità; ogni tanto cambiare dati mi ha causato non pochi problemi, anche di poco conto. Un esempio? Be’, non ho avuto documenti dal ’91 al ’97, quindi qualsiasi cosa per me era diventata difficilissima da fare. Una volta ho incontrato uno dei dentisti più onesti di tutta Italia che mi ha fatto la fattura, e solo grazie agli altri ragazzi dell’associazione (presenti all’incontro e sul web all’indirizzo ritaatria.it, ndr) sono riuscita a uscire dal pasticcio. Un’altra volta, invece, ho incontrato dei carabinieri che per pura leggerezza hanno svelato il mio indirizzo: io e il mio avvocato abbiamo dovuto studiare un modo per sporgere denuncia, dato che non possono comparire i miei dati in carte ufficiali. Eppure, nonostante ciò, nelle carte processuali c’era tutto, anche il mio numero di telefono. Davanti a tutto questo sembra impossibile, me ne rendo conto, ma io credo ancora a giustizia, non posso non crederci. Semmai ho più d’un dubbio riguardo gli uomini delle Istituzioni.

I problemi però sono anche altri: io ho un legame fortissimo con i miei genitori, e poterli vedere così poco mi fa male, dato che mi mancano tantissimo. Mia nonna ripeteva sempre che un padre mantiene cento figli, ma cento figli non mantengono un padre: be’, io ce l’ho fatta, anche se con numerosi sacrifici, però sono soddisfatta di tutto il mio percorso“.

Il discorso si sposta poi sui magistrati: “Ho incontrato diversi uomini, primo fra tutti ‘zio’ Paolo Borsellino di grande spessore morale: oggi c’è in atto un cambiamento di clima, non riescono più a emergere e a farsi valere come un tempo. Colpa specialmente della politica, senza ombra di dubbio. Mi chiedono chi sia il secondo Borsellino: io tra i tanti che ho incontrato credo di aver visto lo stesso spirito di Paolo nel procuratore capo di Napoli, Cafiero. Ce ne sono anche altri, ma -come mi ha confermato una ragazza dell’associaione quando l’abbiamo incontrato- lui sembra proprio incarnare il vecchio spirito di Borsellino.

Mi rendo conto che dalle mie parole quello che ho fatto sembra da folli, ma vi assicuro che non è affatto così: sono riuscita a rifarmi una vita, a cambiare pagina, ricostruire tutto da zero. Lo Stato, quello vero, siamo noi, non gli uomini delle istituzioni. Noi dobbiamo far crescere questo Paese, anche a costo di rinunciare a qualcosa di molto caro. Ma fidatevi, poi vi sentirete molto meglio“.