Tar Lazio: 100.000 € al Generale

Con una recente Sentenza del TAR del Lazio inerente il danno patito da un Colonnello delle guardie penitenziarie per il demansionamento, la dequalificazione e la perdita di chance si è riconosciuto un risarcimento di 100.000 euro. In particolare dal 2002 al ricorrente non è stato riconosciuto il ruolo di dirigente di prima fascia e le relative mansioni e dal 2005 divenuto generale di brigata non gli sono state riconosciute le mansioni di dirigente di seconda fascia.

Ma non basta e la sentenza non definitiva ha bisogno di un supplemento per quantificare l’ulteriore danno alla salute e per questo nello stesso dispositivo si conferisce incarico al Rettore di Roma di nominare due professionisti esperti nella patologia che ha colpito il ricorrente per aver subito in tutti questi anni un vero e proprio mobbing

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione
Prima Quater)

ha pronunciato la presente SENTENZA NON DEFINITIVA

sul ricorso numero di registro generale 9768 del 2014,
proposto da

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Marco
Orlando, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Sistina, 48;

contro Ministero della Giustizia – (D.A.P.), in persona del
ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello
Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l’accertamento della condotta illecita inerente il
demansionamento e la dequalificazione del ricorrente in violazione delle norme
previste in materia di pubblico impiego contrattualizzato e di quelle
espressamente previste per la carriera dirigenziale penitenziaria e per la
condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali;

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia
– (D.A.P.);

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 luglio 2019 il
dott. Antonio Andolfi e uditi per le parti i difensori come specificato nel
verbale;

Visto l’art. 36, co. 2, cod. proc. amm.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con ricorso notificato l’11 luglio 2014 al Ministero della
giustizia, il generale di brigata -OMISSIS-, in servizio presso il Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria con il grado di colonnello dal 22 gennaio
2002 e, successivamente, dal 22 gennaio 2005, con il grado di generale di
brigata, chiede la condanna dell’Amministrazione penitenziaria, previo
accertamento della condotta illecita, al risarcimento dei danni derivanti dal
demansionamento e dalla dequalificazione professionale sofferta, in violazione
delle norme in materia di pubblico impiego e di quelle espressamente previste
per la carriera dirigenziale penitenziaria.

Il ricorrente è un ufficiale generale del Corpo degli agenti
di custodia, ruolo ad esaurimento, di cui all’articolo 25, comma 6, della legge
numero 395 del 1990.

Di fatto, non gli sarebbe mai stato conferito un incarico
dirigenziale, fin dalla nomina al grado di colonnello, corrispondendo tale
grado alla qualifica di primo dirigente e il grado di generale di brigata alla
qualifica di dirigente superiore.

Il danno patrimoniale da risarcire sarebbe quello derivante
dalla dequalificazione e dalla perdita di chance.

Il danno non patrimoniale sarebbe da valutare come danno
biologico.

Richiama, come normativa di riferimento, l’articolo 25 comma
6 della legge numero 395 del 1990 e l’articolo 90 del d.p.r. numero 82 del
1999.

Il Ministero della giustizia eccepisce la legittimità della
condotta amministrativa, richiamando il decreto legislativo numero 63 del 2006
e soprattutto l’articolo 27 del decreto legislativo numero 146 del 2000 che
avrebbe modificato l’articolo 25 della legge numero 395 del 1990.

La difesa statale eccepisce, inoltre, che il ricorrente non
avrebbe chiesto altri incarichi oltre quello negato di direttore dell’ufficio
2º della Direzione generale risorse materiali, beni e servizi, attuale Ufficio
automobilistico, casermaggio, armamento, vestiario, navale e telecomunicazioni.

All’udienza pubblica del 9 luglio 2019 il ricorso è trattato
e trattenuto per la decisione.

DIRITTO

Dall’esposizione dei fatti allegati dalla difesa del
ricorrente, si desume che, a decorrere dal 22 gennaio 2002, l’interessato ha
iniziato a ricoprire il ruolo di colonnello, corrispondente alla qualifica di
primo dirigente delle Forze di Polizia e poi, a decorrere dal 22 gennaio 2005,
quello di generale di brigata, equiparabile alla qualifica di dirigente
superiore dell’Amministrazione Penitenziaria.

Rappresenta il ricorrente di aver richiesto, sin dalla nomina
al grado di colonnello, il conferimento di un incarico dirigenziale, a tal fine
reiterando l’istanza per il conferimento dell’incarico di direttore
dell’Ufficio II della DGRMBS, dapprima in data 2 gennaio 2003, poi in data 18
novembre 2004, richieste tuttavia rimaste inevase.

A seguito dell’assegnazione alla Direzione del predetto
Ufficio al dirigente -OMISSIS-, il ricorrente chiedeva la revoca di ogni suo
incarico presso l’Ufficio II e l’affidamento di mansioni di collaborazione
diretta con il Direttore generale, in attesa del conferimento di un incarico
adeguato alla propria qualifica ed al grado.

In data 29 luglio 2005, con decreto emesso in attesa di
acquisire il parere del gruppo di lavoro in ordine ai criteri ed alle modalità
di conferimento degli incarichi agli ufficiali di ruolo ad esaurimento del
disciolto Corpo degli agenti di custodia, venivano assegnate al ricorrete le
mansioni di coadiutore del Direttore Generale nella trattazione delle pratiche
afferenti le materie tecnico-logistiche, individuate di volta in volta dal
Direttore Generale secondo il proprio prudente apprezzamento.

Asserisce inoltre il ricorrente che il suddetto parere non
sarebbe mai stato prestato dal gruppo di lavoro, che, peraltro, non si sarebbe
mai espresso nemmeno con riferimento all’affidamento di incarichi ad altri
Ufficiali dell’ex Corpo degli agenti di custodia.

Il ricorrente reiterava la richiesta di incarico effettivo
quale direttore dell’Ufficio II della DGRMBS, stante il collocamento in
quiescenza del titolare del predetto Ufficio, ma la funzione veniva ancora una
volta affidata ad altro personale dell’Amministrazione.

Nel febbraio 2012, il nuovo Direttore Generale proponeva
all’odierno ricorrente l’incarico di coordinatore di alcune sezioni
dell’Ufficio III, incarico declinato dall’interessato in quanto non
dirigenziale.

A fronte della necessità di collocare ulteriore personale
nelle funzioni dirigenziali della predetta Amministrazione, in data 28 febbraio
2012, con provvedimento del Capo del Dipartimento, veniva assegnato alla DGRMBS
il -OMISSIS-, proveniente da un’altra articolazione dell’Amministrazione
Penitenziaria e quest’ultimo veniva delegato alla reggenza dell’Ufficio III
della DGRMBS, stante l’assenza di personale con qualifica dirigenziale già in
servizio presso la DGRMBS, con ordine di servizio n. 5 del 2 marzo 2012,
incarico poi divenuto definitivo con decreto del Direttore Generale del
Personale e della Formazione del Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria del 7 marzo 2012.

Con nota n. 6900 del 20 settembre del 2012, il Direttore
Generale proponeva anche la soppressione della Commissione di studio presieduta
dall’odierno ricorrente, poi disposta con decreto del Capo del Dipartimento pro
tempore del 10 ottobre 2012, al fine asserito di razionalizzare le risorse
umane disponibili, applicando una politica di contenimento della spesa
pubblica, sebbene i membri della Commissione, stando a quanto affermato da
parte ricorrente, non avrebbero percepito alcun compenso aggiuntivo per
l’espletamento dell’incarico.

Successivamente veniva intimata al -OMISSIS-la restituzione
del telefono di servizio, nonché con nota del 4 giugno 2012 n. 4368, il
trasferimento ad altra stanza rispetto a quella occupata, per esigenze
dell’Ufficio armamento, intimazione poi reiterata con successivi provvedimenti
ed attuata coattivamente.

A fronte di tale situazione di fatto il -OMISSIS-, in data
22 luglio 2014, depositava ricorso notificato in data 15 luglio 2014 contro il
Ministero della Giustizia al fine di ottenere da questo Tar l’accertamento e la
declaratoria della condotta illecita posta in essere dall’Amministrazione
inerente il demansionamento e la dequalificazione.

Il ricorso è affidato a tre motivi di diritto.

Con il primo motivo, il ricorrente censura la violazione e
falsa applicazione degli artt. 3, 4 e 35 Cost., art. 2103 cod. civ., art. 52
del d. lgs. n. 165 del 2001, della l. n. 395 del 1990, del d. P.R. n. 82 del
1999 e del d. lgs. n. 63 del 2003, eccesso di potere e difetto di motivazione,
atteso che l’Amministrazione avrebbe violato l’obbligo positivizzato nell’art.
2013 cod. civ. e nell’art. 52 del d. lgs. n. 165 del 2001 di adibire il
dipendente ad una mansione confacente alla sua qualifica, dando luogo ad una
condotta pervicacemente persecutoria.

Con il secondo motivo, censura la violazione degli artt.
2103 e 2087 cod. civ. nonché la violazione dell’art. 52 del d. lgs. n. 165/2001
e l’eccesso di potere, atteso che l’Amministrazione avrebbe adottato una
condotta contrastante con gli obblighi di tutela dell’integrità fisica e morale
del lavoratore e di assegnazione del medesimo a mansioni coerenti con la
propria qualifica professionale, da identificarsi nella fattispecie di
elaborazione giurisprudenziale del mobbing.

Il ricorrente formula, da ultimo, domanda di risarcimento
dei danni patiti, con particolare riguardo al danno patrimoniale per
dequalificazione e perdita di chance correlate alle occasioni di carriera
perse, da liquidare in via equitativa, nonché al danno non patrimoniale,
valutato quale danno biologico, morale ed esistenziale subito, stante
l’asserita inattività cui il ricorrente è stato nel tempo costretto dal
Ministero.

Con successiva memoria la difesa del ricorrente rappresenta
che, a seguito dell’accertamento della ASL RM/D della patologia di -OMISSIS-,
con Decreto della Direzione Generale del Personale e delle Risorse del 15
novembre 2016, il -OMISSIS-è stato dispensato dal servizio per infermità. Nella
medesima memoria si allegano ulteriori episodi probanti l’illiceità della
condotta dell’Amministrazione, deducendone il nesso causale con il danno patito
a fronte della patologia accertata, tra cui il procedimento disciplinare
avviato in data 20 agosto 2014 per assenza ingiustificata dal servizio, poi
concluso con decisione di non procedere in data 9 maggio 2015.

Al fine della risoluzione del caso di specie occorre,
preliminarmente, individuare quali obblighi incombano sul datore di lavoro a
fronte del rapporto sinallagmatico posto in essere con il lavoratore.

Tali obblighi costituiscono espressione del dettato
costituzionale e segnatamente della disposizione di cui all’art. 4 a mente
della quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e
promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha
il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale
della società.”.

La disposizione testé richiamata permea le ulteriori
disposizioni di grado inferiore che fanno gravare sul datore di lavoro
specifici obblighi di tutela del lavoratore. L’art. 2087 cod. civ. sancisce
infatti il principio per cui il datore di lavoro deve adottare tutte le misure
necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, nonché la sua personalità
morale; il successivo articolo 2103 cod. civ. obbliga il datore di lavoro ad
adibire il lavoratore alle mansioni per cui è assunto od alle qualifiche
superiori che abbia nel frattempo acquisito, costituendo così il dato positivo
che dovrebbe scongiurare il pericolo di demansionamento e dequalificazione.

Le norme civilistiche, pur non direttamente applicabili ai
rapporti di lavoro non contrattualizzati, costituiscono espressione dei
principi costituzionali richiamati e, pertanto, devono trovare applicazione,
mediatamente, anche ai dipendenti pubblici in regime pubblicistico, tra i quali
è da ricomprendere il ricorrente, appartenente al ruolo ad esaurimento degli
ufficiali del Corpo degli Agenti di custodia.

Ne deriva che, in caso di inosservanza di tali obblighi, il
datore di lavoro pubblico pone in essere una condotta illecita, da ricondurre
all’alveo della responsabilità contrattuale, non limitata ai rapporti
strettamente dipendenti da un negozio giuridico, ma rinvenibile ogni qual volta
tra due soggetti si instauri un rapporto giuridico connotato da diritti e
obblighi reciproci.

Nello specifico, il ricorrente lamenta una atteggiamento
persecutorio riconducibile alla figura giuridica del “mobbing”, di elaborazione
giurisprudenziale.

In mancanza di una definizione positiva, la giurisprudenza
ha ritenuto sussistente la responsabilità del datore di lavoro per i danni
cagionati al lavoratore al ricorrere dei seguenti elementi: a) molteplicità e
globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé
leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il
dipendente secondo un disegno vessatorio; b) evento lesivo della salute
psicofisica del dipendente; c) nesso eziologico tra la condotta del datore o
del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del
lavoratore; d) prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio
unificante i singoli fatti lesivi, che rappresenta elemento costitutivo della
fattispecie (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 27/10/2016, n.4509; T.A.R.
Catania, sez. III, 03/04/2018, n. 687; Corte d’Appello Milano, sez. lav.
10/06/2019, n.770).

Nel caso di specie, da quanto versato in atti, emerge che
effettivamente l’Amministrazione resistente abbia reiterato un comportamento al
limite della legittimità, ignorando le numerose richieste avanzate dalla parte
ricorrente volte ad ottenere il conferimento di un incarico dirigenziale, senza
che tali determinazioni fossero mai suffragate da una puntuale motivazione in ordine
al pubblico interesse tale da legittimarle.

Si deve richiamare, al riguardo, l’art. 25 della legge
15/12/1990, n. 395, Ordinamento del Corpo di Polizia Penitenziaria, che, al
comma 6, dispone che gli ufficiali del ruolo ad esaurimento assumono le funzioni
e gli obblighi dei funzionari direttivi o dei dirigenti dell’Amministrazione
penitenziaria e possono essere preposti, a domanda, alla direzione dei servizi
tecnico-logistici, del servizio di traduzione dei detenuti ed internati e del
servizio di piantonamento dei detenuti ed internati ricoverati in luoghi di
cura, secondo le modalità stabilite dal regolamento di servizio di cui
all’articolo 29, nonché dei servizi di amministrazione. Possono altresì essere
preposti, a domanda, alla direzione degli istituti e servizi
dell’Amministrazione penitenziaria, sempre che siano in possesso dei requisiti
previsti dalle leggi vigenti per il corrispondente profilo professionale.

Per l’integrazione e la parziale modifica di quanto disposto
dal presente comma, si deve far riferimento all’art. 27 del D. Lgs. 21 maggio
2000, n. 146, rubricato “Ricollocamento del personale del ruolo ad esaurimento”
ove è disposto che, ad integrazione e parziale modifica del comma 6
dell’articolo 25 della legge 15 dicembre 1990, n. 395, nell’àmbito
dell’Amministrazione penitenziaria i predetti ufficiali, per la specifica
professionalità e per la peculiare esperienza da essi maturata a livello
operativo, sono applicati:

a) presso uffici e servizi tecnico-logistici, sia a livello
centrale che periferico, con funzioni di direzione o di supporto alla
direzione;

b) nel servizio di traduzione e piantonamento dei detenuti e
degli internati, sia a livello centrale che periferico, con compiti di
direzione o di supporto alla direzione;

c) presso i Provveditorati regionali, di supporto al
Provveditore per i settori e per le problematiche di cui alle lettere a) e b),
oltre che per gli aspetti organizzativi e di coordinamento relativamente
all’impiego dei contingenti di Polizia Penitenziaria, alla idoneità delle
caserme, delle mense e degli equipaggiamenti;

d) nelle articolazioni centrali, presso l’Istituto superiore
di Studi penitenziari e presso le scuole, di supporto ai responsabili di dette
strutture per l’attività didattica, di formazione e di addestramento del
personale del Corpo di Polizia Penitenziaria. In tale àmbito sono preposti alla
direzione ed alle connesse attività operative dei poligoni di tiro
dell’Amministrazione.

Tale impiego è di norma disposto a domanda dell’interessato
e con provvedimento da emanarsi tenendo conto dei criteri di cui all’articolo
90 del decreto del Presidente della Repubblica 15 febbraio 1999, n. 82. È
comunque fatta salva la facoltà dell’Amministrazione penitenziaria, per
sopravvenute esigenze e per il perseguimento di propri obiettivi prioritari, di
disporre autonomamente l’impiego di ufficiali nei compiti di cui al comma 1.

Fermi restando il grado rivestito e l’anzianità posseduta,
le funzioni, sia di livello direttivo che dirigenziale, attribuibili agli ufficiali
del ruolo ad esaurimento sono quelle corrispondenti alle responsabilità ed agli
incarichi ad essi effettivamente conferiti dall’amministrazione.

Dal tenore della normativa citata emerge un chiaro
riconoscimento legislativo del ruolo istituzionale degli ufficiali del Corpo
degli agenti di custodia, accompagnato dall’obbligo amministrativo del
conferimento, anche d’ufficio, di incarichi corrispondenti al grado rivestito e
alla professionalità acquisita.

Le richieste del ricorrente per il conferimento di funzioni
dirigenziali si sono protratte sin dal 2003, come è evincibile dalla missiva
data 2 gennaio 2003 (doc. 2 del fascicolo di parte ricorrente) e sono state
ulteriormente reiterate in data 18 novembre 2004 (doc. 4), 16 giugno 2005 (doc.
6), 3 ottobre 2007 (doc. 7), sebbene senza esiti. Dalle varie note
dell’Amministrazione, prodotte da parte ricorrente, risulta infatti che
l’Amministrazione medesima ha provveduto a conferire incarichi dirigenziali ad
altri dipendenti, appartenenti anche a personale diverso da quello in servizio
presso la DGRMBS, ignorando l’interessato, senza che tale condotta omissiva
fosse giustificata da un’esigenza di interesse pubblico ed anzi in apparente
contrasto con i principi di razionalizzazione delle risorse pubbliche pure
invocati dalla medesima resistente in alcuni suoi provvedimenti.

Come emerge dagli atti depositati dal ricorrente nel ricorso
introduttivo e da quanto risulta dalle note di replica del 14 giugno 2019,
l’Amministrazione non solo non ha riconosciuto la professionalità acquisita dal
ricorrente, ma anzi ha prediletto la nomina a dirigente di altre risorse
dell’organico provenienti anche da altre articolazioni dell’Amministrazione.

Basti a tal fine menzionare gli incarichi attribuiti ai
-OMISSIS- con riferimento alla posizione per cui il ricorrente ha negli anni
presentato domanda, a fronte di qualifiche non certamente superiori dai
medesimi possedute.

La pluralità delle condotte lesive è poi culminata nel
decreto del 10 ottobre 2012 con cui il Ministero della Giustizia ha proceduto
alla soppressione della Commissione di studio presieduta dall’odierno
ricorrente, privandolo del tutto della possibilità di esplicare la propria
professionalità, nonché nei provvedimenti con cui l’Amministrazione resistente,
motivando sulla scorta di generiche esigenze di razionalizzazione dell’Ufficio,
ha richiesto al medesimo il trasferimento in altro locale adibito a stanza in
uso al personale dipendente, dopo 16 anni di occupazione della stessa stanza da
parte del ricorrente medesimo (nota prot. n. 001161 del 2013, nota prot.
207/LIV. DIV. Del 15 marzo 2013, nonché doc. 30, 32 e 34 del fascicolo di parte
ricorrente).

Si consideri pure che, da quanto asserito dal ricorrente e
non contestato dalla resistente Amministrazione, il dipendente è stato posto
per un biennio in condizioni di totale inattività, stante l’asserita
inesistenza di incarichi cui adibire l’ufficiale medesimo.

Da quanto innanzi emerge dunque chiaramente la condizione di
inattività o comunque di attività non conforme alla professionalità ed alle
qualifiche dell’odierno ricorrente, idonea ad integrare uno degli elementi
costitutivi della fattispecie di mobbing.

A fronte di ciò, l’Amministrazione, negli scritti difensivi,
si è limitata a richiamare le procedure per il conferimento degli incarichi
dirigenziali, riconoscendo, implicitamente, di non aver mai conferito al
ricorrente un incarico adeguato al grado rivestito.

Al riguardo, si deve ritenere che non possono ricadere sul
ricorrente le disfunzioni organizzative, indicative di colpa grave
dell’apparato, emergendo dal carteggio processuale una radicale incapacità di
impiegare correttamente gli ufficiali superiori del Corpo degli agenti di
custodia.

Particolarmente significativa, in proposito, è la nota del
Direttore generale delle RMBS in data 23 febbraio 2010, laddove l’alto
funzionario dichiara che “si deve prendere atto dell’impossibilità materiale di
procedere ad impiegare” i dirigenti militari ed esorta il Capo del Dipartimento
ad “affrontare la problematica degli ufficiali inquadrati nella dirigenza, così
da concludere una problematica che si trascina stancamente ormai da quasi 20
anni, che non giova all’Amministrazione, che serve solo a demotivare, oltre
ogni limite e capacità di tolleranza umana, personale che potrebbe ancora dare
un contributo deciso e pregevole in termini di capacità… lo chiede il rispetto
che si deve dare alla dignità degli interessati”.

Si deve considerare, inoltre, che la dequalificazione del
generale si è protratta fino al suo collocamento anticipato a riposo, in data
15 novembre 2016, per infermità.

Deve quindi ritenersi che la mancata attribuzione delle
funzioni dirigenziali cui il ricorrente medesimo ambiva abbia determinato un
danno da dequalificazione professionale, particolarmente significativo e per
tempo e per la natura della condotta lesiva. A ciò si aggiunga inoltre il danno
da perdita di chance correlato al venir meno delle occasioni di carriera che
sarebbero state offerte all’ufficiale qualora correttamente impiegato, con la
possibilità di ambire anche al grado superiore.

La condotta amministrativa innanzi descritta potrebbe
integrare, inoltre, gli estremi del mobbing, essendo ravvisabile una strategia
unitaria persecutoria tesa ad emarginare il dipendente, finanche a porlo in una
condizione di soggezione.

Prova di ciò è data dal procedimento disciplinare avviato
nei confronti del ricorrente il 20 agosto 2014, per assenza dal servizio,
archiviato solo nell’aprile 2015, in seguito alle controdeduzioni
dell’interessato.

Qualora, dunque, fosse accertato che il dipendente, oltre il
danno da dequalificazione, abbia sofferto anche un danno non patrimoniale alla
salute psico-fisica, dovrebbero ritenersi sussistenti tutti gli elementi
costitutivi della fattispecie di mobbing elaborati dalla giurisprudenza,
collocabile nell’alveo della responsabilità contrattuale, aggravata dalla
posizione qualificata rivestita dall’Amministrazione nei confronti del
dipendente pubblico.

Il Tribunale ritiene, dunque, in applicazione dell’art. 1226
cc, di poter liquidare in via equitativa il danno patrimoniale da
demansionamento e perdita di chance sofferto dal ricorrente, unitamente
considerato (Cass. n. 6110 del 2012) tenendo in considerazione il periodo in
cui tale illecito atteggiarsi dell’Amministrazione si è espletato (decorrente
dal 2003 ed aggravatosi con la dispensa del ricorrente dal servizio per
infermità nel 2016), la gravità e le modalità della condotta amministrativa
valutata anche in relazione all’importanza delle funzioni di pertinenza del
ricorrente e le conseguenze verificatesi in relazione alle mancate progressioni
di carriera (Cass. n. 4063 del 2010).

Il parametro di liquidazione del danno è attinto dal
precedente di questo stesso giudice (Sentenza n. 00896/2013) con cui si è
deciso un ricorso quasi esattamente sovrapponibile a quello del -OMISSIS-,
tenendo conto che nel caso dell’attuale ricorrente la gravità della condotta illecita
è aggravata dalla maggior durata (anni 14) ma è attenuata dalla circostanza che
l’odierno ricorrente si è limitato a chiedere il conferimento di un solo
specifico incarico.

Ciò non esclude la responsabilità contrattuale
dell’Amministrazione che avrebbe dovuto provvedere anche di propria iniziativa,
ma determina la compensazione delle circostanze aggravanti con quelle
attenuanti.

A titolo di responsabilità contrattuale, quindi, il
Ministero della Giustizia deve essere condannato al risarcimento dei danni da
dequalificazione professionale e da perdita di chance, il cui importo viene
liquidato in euro centomila attuali oltre interessi legali, decorrenti dalla
data di pubblicazione della presente sentenza, fino all’effettivo pagamento.

In relazione agli ulteriori danni richiesti, da qualificarsi
quali voci meramente descrittive dell’unica voce di danno non patrimoniale ai
sensi dell’art. 2058 cod. civ. – che attiene alla lesione di interessi inerenti
alla persona non connotati da valore di scambio e che presenta natura
composita, articolandosi in una serie di aspetti (o voci) aventi funzione
meramente descrittiva, quali il danno morale (identificabile nel patema d’animo
o sofferenza interiore subìti dalla vittima dell’illecito, ovvero nella lesione
arrecata alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della
dignità umana), quello biologico (inteso come lesione del bene salute) e quello
esistenziale (costituito dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del
soggetto danneggiato), dei quali, ove essi ricorrano cumulativamente, occorre
tenere conto in sede di liquidazione del danno, in ossequio al principio
dell’integralità del risarcimento, senza che a ciò osti il carattere unitario
della liquidazione, da ritenere violato solo quando lo stesso aspetto (o voce)
venga computato due (o più) volte sulla base di diverse, meramente formali,
denominazioni (cfr. Cass. Sez. Unite, n. 26972 del 2008) – il Collegio ritiene
di dover disporre un’ulteriore attività istruttoria.

È difatti necessario disporre una verificazione onde
accertare se la patologia “-OMISSIS-”, risultante dalla perizia espletata
presso la Commissione Ospedaliera del Dipartimento di Medicina Legale di Roma
in data 10 novembre 2016 (doc. 1) e già accertata precedentemente dalla ASL
RM/D, sussista e se sia stata cagionata dalla reiterata e sistematica condotta
lesiva dell’Amministrazione resistente e se del caso, abbia determinato ed in
quale misura postumi invalidanti.

A tal fine si dispone che la verificazione venga espletata
.dall’Università “La Sapienza” di Roma; in proposito il Rettore della predetta
Università dovrà individuare un collegio di due professori esperti nella
materia correlata alla patologia da accertare, i quali procederanno
all’adempimento istruttorio (previo avviso alle parti in causa almeno cinque
giorni prima della data d’inizio delle operazioni) nel termine di giorni
novanta dalla comunicazione, in forma amministrativa o dalla notifica, ad
istanza di parte, del presente provvedimento, depositando, all’esito, un
elaborato scritto relativo agli accertamenti effettuati.

Per la prosecuzione del giudizio, deve essere fissata
l’udienza pubblica indicata nel dispositivo.

La statuizione in ordine alle spese processuali è rinviata
alla sentenza definitiva.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione
Prima Quater), non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe
proposto:

Accoglie la domanda di risarcimento del danno patrimoniale
da dequalificazione professionale e da perdita di chance e, per l’effetto,
condanna l’Amministrazione resistente a pagare in favore del ricorrente la
somma di euro centomila (100.000,00) oltre interessi legali dalla data di
pubblicazione della presente sentenza fino all’effettivo pagamento.

Dispone la verificazione nei sensi di cui in parte motiva.

Fissa, per la prosecuzione del giudizio, l’udienza pubblica
del 18 febbraio 2020.

Rinvia alla sentenza definitiva la statuizione in ordine
alle spese processuali.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità
amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui
all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e
all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10
agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi
di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità
nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di
persone comunque ivi citate.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9
luglio 2019 con l’intervento dei magistrati:

Donatella Scala, Presidente FF

Mariangela Caminiti, Consigliere

Antonio Andolfi, Consigliere, Estensore