“Cosenza è una città tranquilla, quasi non sembra Calabria”: questo è ciò che raccontano in molti nella città dei Bruzi, lasciando intendere che sono altre le zone infestate dalle ‘ndrine e dai loro affari sporchi. Sarebbe tutto vero, nel centro cittadino sarebbe tutto tranquillo come una volta era il nord immune dalle infiltrazioni criminali e come si mostra agli occhi dei più, ma la realtà a Cosenza è un’altra. Sotto l’apparenza di una vita che scorre placida come i due fiumi che abbracciano il centro storico – il Crati e il Busento – c’è una storia che ha molto da spartire con quella di tutte le altre province calabresi. Una storia di contiguità, di ferocia omicida e di affari condotti nel silenzio per non destare le attenzioni scomode di magistrati e forze dell’ordine.
Questa storia, a Cosenza, ha trovato l’ennesima conferma quando “Terminator” ha cercato di fare piazza pulita. Con questo nome altisonante era stata chiamata l’operazione che nel 2008 aveva portato quattordici affiliati alle cosche in galera con l’accusa di omicidio, estorsione e violazione della legge sulle armi e con l’aggravante dell’appartenenza all’associazione mafiosa. Gli arresti, nati dalla confluenza delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e delle risultanze di quattro diverse operazioni (“Garden”, Tamburo”, “Squarcio” e “Nepetia”) avevano sgominato una banda che si era inserita nella “complessa riorganizzazione interna, fatta di nuove alleanze e che richiedeva l’eliminazione fisica di quanti vi si opponevano”, come sottolineavano gli investigatori della Dia di Catanzaro e di Cosenza. Detto in parole povere, la città dei Bruzi era al centro di una guerra di ‘ndrangheta.
Ora nuovi sviluppi arrivano sul fronte di un omicidio, avvenuto il 22 luglio 2002, secondo gli inquirenti legato proprio a quel riassetto dei poteri locali. A essere freddato mentre era alla guida della sua autovettura nella centrale via Cosmai, l’imprenditore Carmine Pezzulli. La sua colpa, secondo il collaboratore di giustizia Carmine Violetta Calabrese, era di aver sottratto alle cosche 800 milioni di lire. “Ancora un paio di settimane, Micuzzo è d’accordo e una motocicletta, una macchina e un paio di ferri” diceva Francesco Chirillo durante un colloquio in carcere mimando il gesto di sparare al contabile delle cosche.
Nonostante questa prova, però, la vicenda processuale per l’omicidio Pezzulli è contorta: solo lo scorso febbraio il gup di Catanzaro, Assunta Maiore, aveva accolto in parte le richieste della Direzione distrettuale antimafia condannando a trent’anni Domenico Cicero e assolvendo Francesco Chirillo. Secondo il pm Pierpaolo Bruni della Dda, che aveva chiesto la condanna per entrambi, Cicero e Chirillo erano i mandanti dell’omicidio Pezzulli, eseguito poi – sempre secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmine Violetta Calabrese – da Davide Aiello.
Dichiarazioni che corrispondono a quelle di un altro collaborante, Francesco Galdi, ascoltato in aula lo scorso 18 febbraio. Galdi aggiunge altri particolari al movente dell’omicidio (sarebbe stato lui stesso ad aver fornito una consulenza al clan dei Cicero per incastrare “Carminuzzu” Pezzulli) e alla dinamica (a sparare contro l’imprenditore fu Davide Aiello, seduto dietro a Gianfranco Sganga che era alla guida della moto che affiancò Pezzulli).
La verità processuale raggiunta ad oggi, invece, è che il mandante unico dell’omicidio è stato Domenico Cicero. Sganga, pur essendo stato citato dal collaboratore di giustizia Galdi, non è mai apparso nel registro degli indagati. Aiello, che secondo le dichiarazioni rese dai due pentiti avrebbe materialmente sparato, ha invece visto concludersi con l’assoluzione il processo a suo carico e dal 31 luglio scorso è un uomo libero.
Un caos giudiziario che lascia aperte molte questioni, come ad esempio la vicenda della moto usata per l’agguato e mai ritrovata. Intanto tutto si ferma per un mese: le udienze riprenderanno a settembre.