Testimoni di ingiustizia?

Una cosa è la dignità, una cosa l’aiuto. Ignazio Cutrò le chiede entrambe, e mentre lo fa sottolinea quanto siano diverse. “Nessuno deve pagare i miei debiti: io devo pagarli, e per questo chiedo aiuto allo Stato. Ma si badi: io chiedo di permettermi di lavorare, non chiedo i soldi per i debiti. La scelta di denunciare, di entrare nel programma di protezione, è stata mia, io ho scelto di schierarmi al fianco dello Stato, e voglio che mi sia data possibilità di mantenere la dignità di uomo e di lavoratore onesto”. Testimone chiave di giustizia al processo “Face off”, questo imprenditore di Bivona, nell’agrigentino, mostra una forza d’animo gigantesca, una tenacia che lo pone allo stesso livello dei simboli più alti della lotta alla mafia che questi ultimi vent’anni hanno conosciuto. La voce è secca, decisa, ti inchioda i pensieri. E ti disarma: “Fino a quando devo combattere contro i mafiosi io combatto, perché so che si può vincere, ma se mi devo mettere a combattere anche contro la burocrazia, allora cambia tutto”. Già, cambia tutto, perché entrano in gioco delle variabili impazzite, incontrollabili. Non si spiegherebbe altrimenti come è possibile che, dopo aver ottenuto la sospensione prefettizia in qualità di vittima del racket, che ha portato al congelamento dei debiti contratti con le banche, l’Inps non abbia rilasciato quanto dovuto per far ripartire l’azienda torturata dai mammasantissima, il Documento Unico di Regolarità Contributiva. “Non è possibile da un lato lottare spalla a spalla con lo Stato, dall’altro lottare contro lo Stato, contro i suoi apparati”. Non è possibile, no. Eppure, nonostante il personalissimo doppio fronte di guerra, Ignazio mantiene una fiducia non comune: “Lo Stato è comunque al mio fianco, io non sono da solo. E dico questo nonostante qui a Bivona la gente si allontani”. Sì, perché in quel pezzo di Sicilia hanno fatto terra bruciata attorno a lui e alla sua famiglia: li trattano come appestati, hanno reali problemi di convivenza. E a sentire queste storie, storie che raccontano di una figlia quasi discriminata, di una casa diventata luogo di paura (è di qualche mese fa la sorpresa di una ‘visita’ sgradita, scoperta per caso grazie al latrare di un cane, una visita che stava per lasciare il segno su uno degli uomini più sorvegliati della Sicilia), a sentire storie di silenzi e piombo viene naturale chiedere ad Ignazio quale sia il motivo per il quale non abbia fatto la scelta di lasciare quella terra così arida: “Non me ne vado, assolutamente. Andarsene significherebbe darla vinta a quelli contro cui combatto. Questa terra non la lascio, non mi faccio buttare fuori. Se ce ne andassimo verrebbe occupata da loro, che la distruggerebbero. Io resto, invece, e voglio tornare a fare l’imprenditore, ma voglio farlo in un mercato libero, senza un altro mostro in mezzo, senza la burocrazia impazzita”.

Ignazio cova una rabbia ragionata dentro, che non lo rende cieco: da un lato vede i mafiosi, dall’altro lo Stato. In mezzo ci vede la politica, e alla politica chiede di fare una scelta decisa: “Io lo dico che i mafiosi sono pezzi di merda, lo grido. Ma ci fosse un politico, uno soltanto, che avesse gridato insieme a me!”. Ha un coraggio da vendere, che se realmente potesse mettere sul mercato potrebbe salvare almeno parte di quella Bivona che lui racconta essere sordomuta. Lo stesso coraggio che ha mostrato il giorno dopo aver sventato quel possibile attentato dentro casa, scrivendo sul web a viso aperto: “Egregi stronzi mafiosi e company, siete arrivati vicino casa mia, sì, ma grazie a quegli angeli non avete avuto tempo di respirare, vi sono subito stati nel culo anche se effettivamente la caccia ‘all’uomo’, se uomo si può dire, poi è andata a vuoto. Però di certo starete con due piedi in una scarpa, prima o poi sarete messi con la faccia al muro, e giustizia sarà fatta. Questi gesti ci danno più carica in questa lotta, perché ci fanno capire allo stesso tempo quanto siate vigliacchi e anche che le istituzioni sono vicine e reattive. Carabinieri, uomini, padri di famiglia che con sprezzo del pericolo vigilano costantemente su di noi, su tutti i cittadini, e mettendo a rischio la loro vita ogni giorno si sforzano di rendere più pulito dalle illegalità il nostro Paese. Un grazie a questi valorosi uomini di tutte le forze dell’Ordine, ma soprattutto in culo alla mafia”. Quell’espressione finale, “in culo alla mafia”, è diventato il suo slogan, se la porta al collo come aglio per i vampiri. Mentre cammina a testa alta nella sua terra, che adesso è ancora più sua. Non tutti, però, possono tenere la testa alta sulla propria terra. Se Ignazio Cutrò può scrivere ai mafiosi che le istituzioni gli sono vicine e sono reattive, così non può fare Pino Masciari. Pino cammina a testa alta, sì, altissima: è stato definito uno dei testimoni cardine nella lotta alla criminalità, ma il meccanismo funziona male. Quando Pino è nella sua terra, in Calabria, è come se manchi l’olio, il cardine scricchiola. Ci è tornato una manciata di giorni fa, e il rumore si è fatto sentire: la scorta, della quale avrebbe bisogno, suo malgrado, come l’aria che respira, si è dissolta. “In aeroporto è venuto a prenderlo un semplice autista. Poi è andato in albergo, ci è rimasto un bel po’ in attesa della scorta e alla fine ha deciso di uscire da solo”. Raccontano così il breve soggiorno in Calabria di questo imprenditore edile catanzarese i suoi amici, lo staff che gestisce il suo sito. E alla domanda sul perché di questa assurda situazione rispondono con la più ovvia delle risposte: “Pino in Calabria non è che lo vedono bene…”. Già, pare sia tutte le volte così. Lui, che nel 2001 ricevette dallo Stato il suggerimento di non recarsi in Calabria perché troppo pericoloso, che dal 2005 al 2009 collaborò con la giustizia nonostante gli fosse stata revocata la scorta per un incredibile errore burocratico, errore che riparò la presidenza della Repubblica solo a seguito di uno sciopero della fame e della sete. A tanto si arriva quando si combatte con più di un “mostro”, come definisce Ignazio Cutrò tanto la mafia quanto la burocrazia. Quella burocrazia che diventa sviste, diventa ritardi. Oppure diventa abbandoni, come nel caso di Valeria Grasso: “Da sette mesi sono in attesa di capire se devo continuare a stare a Palermo, se devo vivere sotto tutela, se sono ancora in pericolo di vita. Da sette mesi aspetto risposte che ancora oggi non mi vengono date”. Niente risposte per Valeria, e nel frattempo gli viene tolta la tutela dei figli: “Mi è stato spiegato, informalmente, che la tutela non è più ritenuta necessaria, ma che allo stesso tempo non riceverò alcuna comunicazione ufficiale perché nessuno intende assumersi la responsabilità di questa decisione”. Scrive così Valeria in una lettera aperta, sfogando la propria rabbia allo stesso modo di Ignazio e Pino, che conosce bene. Con Ignazio si incatenò davanti al Viminale, protestando per le dimenticanze dello Stato. Ma è davvero così? Gli uomini di Stato dimenticano, ignorano?

“Il governo Berlusconi, sui testimoni di giustizia, ha avuto responsabilità gravissime. I testimoni sono diventati un problema invece di essere considerati una risorsa su cui far leva nella lotta alle mafie”. Risponde così il senatore Beppe Lumia, membro della Commissione parlamentare antimafia. Punta il dito contro la vecchia gestione della cosa pubblica, quella appena travolta dall’indignazione italiana, e rilancia: “Seguo Ignazio Cutrò, Valeria Grasso, Pino Masciari… E non mi fermerò di fronte a nessun ostacolo. La relazione della Commissione Antimafia del 2008 è un buon punto di riferimento per migliorare la gestione dei testimoni. Da tempo ad ogni occasione utile presento in Parlamento un emendamento che sino ad ora è stato sempre respinto dalla maggioranza di centrodestra. Certo, c’è una responsabilità di tutta la politica che sottovaluta il ruolo dei testimoni e i loro diritti. Proprio per questo bisogna tenere sempre alta l’attenzione dentro e fuori le istituzioni”. In effetti Lumia ha più volte sollevato la questione, acceso i riflettori. Giorni fa segnalava: “Valeria Grasso ha denunciato il suo estorsore perché crede nella legalità e perché si è fidata delle istituzioni. Con le sue denunce ha dato un importante contributo per combattere il racket del pizzo. Una scelta coraggiosa che lo Stato non può tradire, negando la tutela ai suoi familiari. Pertanto chiedo al sottosegretario Alfredo Mantovano e al Servizio centrale di protezione di adottare tutte le misure necessarie per garantire alla famiglia Grasso la massima sicurezza e per sostenere il suo reinserimento sociale ed occupazionale”. C’è una voce in Parlamento, quindi, ma non basta. Ci sono voci anche in Europa, basti pensare a Sonia Alfano e Rosario Crocetta, ma non basta ancora. Perché se Valeria, Pino e Ignazio denunciano fondamentalmente la stessa cosa, cioè il rischio d’abbandono, allora significa che si rischia davvero. Sono tre denuncie simili, tre. Tre indizi. E in genere si usa dire che tre indizi fanno una prova.

Nella foto: Gli amici di Pino Masciari esprimono solidarietà ad Ignazio Cutrò

 

Sebastiano Ambra