Torna a casa La resurrezione di Lazzaro.

Il restauro e la mostra.
È tornato a Messina, uno dei più famosi quadri di Michelangelo Merisi da Caravaggio, passato alla storia come “Caravaggio”. La resurrezione di Lazzaro, dopo sette mesi di restauro, a ripreso il suo posto accanto all’altro capolavoro dell’immortale genio lombardo che la nostra città ha la fortuna e l’onore di custodire: L’adorazione dei pastori. Fa bella mostra di sé, è il caso di dirlo, nella sala interamente dedicata al Merisi, frontale alla porta, a posta per far saltare un battito del cuore a chi varca la soglia. Tale è la potenza e prepotenza della tela in questione. A fare da degno corollario del tanto atteso rientro, una mostra in cui sono esposti dettagliati pannelli e video che raccontano l’opera e i lavori di restauro. L’evento è stato presentato mercoledì 25 luglio, al Museo Regionale di Messina nel corso di una conferenza stampa e la sera stessa la versione restaurata del capolavoro di Michelangelo è stata definitivamente aperta alla fruizione del pubblico, insieme alla mostra che si terrà fino al 25 novembre.  Il dipinto è giunto a Roma nel Novembre 2011. Il restauro è stato eseguito dall’Istituto superiore per la conservazione e il restauro del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ed è stato materialmente seguito ed eseguito dalla dottoressa Anna Maria Marcone – direttore del laboratorio – e dalla dottoressa Caterina Di Giacomo e si inserisce nel progetto volto alla revisione degli interventi eseguiti da parte dello stesso istituto a partire dagli anni cinquanta. Risale al 1951, infatti, la precedente manutenzione dell’opera. La mostra, allestita dall’associazione culturale “Metamorfosi”,sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica, è promossa dall’Assessorato Regionale dei Beni Culturali con il patrocinio del Comune di Messina. Durante la conferenza di mercoledì scorso è stato sottolineato come il museo della nostra città contenga dei veri e propri gioielli che il mondo ci invidia, ma che i messinesi ignorano se non, peggio ancora, sottovalutano, mentre il presidente di Metamorfosi, Pietro Falena, ha fatto notare come l’Italia eccella nell’arte del restauro su scala mondiale. Per quanto riguarda il restauro vero e proprio, come afferma la direttrice del laboratorio Anna Maria Marcone: “Nonostante l’opera sia stata spesso descritta come in pessime condizioni, non si poteva definire cattivo il suo stato di conservazione, l’impressione era legata al fatto che la composizione si vedeva male”. Un effetto dovuto all’invecchiamento della vernice che aveva generato un’alterazione cromatica che ne annullava l’originaria trasparenza.  Nella pulitura della tela per riportare il colore all’originario splendore, inoltre, si sono dovuti cancellare i residui di materiale proteico impiegato in passato per migliorare la visibilità della superficie. “Una cosa che molti non hanno capito è che la tela è scura e nasce scura, da qui i numerosi tentativi di schiarire il colore”, sospira la dottoressa Marcone.
Caravaggio a Messina.
Caravaggio approda nella città della falce, dopo essere scappato dalla prigionia maltese ed essersi inizialmente fermato a Siracusa. Una tappa intermedia, quella Messinese, tra le tre siciliane – l’ultima sarà Palermo. Una tappa che si può definire addirittura tranquilla, se consideriamo la turbolenta vita del Merisi. Una calma forse, però, solo apparente visto che rispetto al periodo maltese, quello siciliano segna un’ulteriore cambiamento nell’arte del Caravaggio, che torna ad essere agitata da tensioni ancora più drammatiche e colori più cupi, mentre lo sfondo che contiene i personaggi si dilata sempre più, come una voragine che incombe, inquietante, su di essi. Caravaggio arriva a Messina – dove pare continui a spacciarsi per un cavaliere di Malta – dunque, nel 1908 dopo essere stato ospitato a Siracusa dal pittore e amico Mario Minniti e il primo dipinto che gli viene commissionato nella nostra città è proprio la Resurrezione di Lazzaro. In realtà l’oggetto del quadro voluto dal mercante genovese Giovan Battista de Lazzari per la chiesa dei Crociferi era originariamente un altro – la Madonna  e San Giovanni Battista – ma, si sa, al genio non si comanda.  Un aneddoto raccontato dall’erudito messinese Susinno, vuole che per la realizzazione della tela Caravaggio si sia fatto assegnare una stanza nell’ospedale cittadino, per poter prendere così a modello direttamente un cadavere. La resurrezione di Lazzaro è un’opera che ha visto gli splendori della nostra città e ne ha condiviso le tragedie. È sopravvissuta al terremoto del 1908 e per un certo periodo, è stata “ospitata” nelle baracche sorte successivamente al tragico evento.
La tela.
C’è sempre qualcosa di superfluo nel “dire” di un quadro, perché un quadro è una “vibrazione musicale” – direbbe Kandinskij- in altre parole: pura emozione. Al di là di ciò che rappresenta e delle nostre rappresentazioni e teorizzazioni su di esso. Un quadro non si racconta, né si spiega, si sente. La premessa è quanto mai doverosa soprattutto per una tela di straordinario impatto emotivo come La resurrezione di Lazzaro. Olio su tela (380×275), caratterizzata dall’ ampiezza dello sfondo cupissimo e dalla luce tipicamente caravaggesca. Quella luce contraddittoria, che sembra seguire più i moti dell’animo tormentato dell’autore e le esigenze della composizione che quelli naturalistici della prospettiva  rinascimentale, che impone che in un dipinto la luce provenga solo da una direzione, imperativo costantemente disatteso dal Caravaggio. Ciò che spicca una volta varcata la soglia della sala in penombra, è  il corpo di Lazzaro, che sembra brillare di luce propria. Poi il volto centrale, deformato dallo stupore per il miracolo misto, forse, ad un’ancestrale orrore nel vedere un corpo morto riprendere vita. Solo in seguito, ci si accorge del Cristo, defilato di lato, con il volto in penombra. Un Cristo simile alla Vocazione di San Matteo. Anche qui, più che al volto e all’intera persona, la divinità del miracolo è affidata alla mano, tesa nell’atto del comando – “alzati!” – verso il corpo di Lazzaro sostenuto da un capannello di uomini, mentre nel lato opposto, solitarie, due donne sembrano ancora piangerlo. Una delle due, la sorella, è ritratta nell’attimo di accostare il suo volto a quello del defunto quasi rinato, in un gesto dolcissimo e in una posa che è diventata celebre. Il corpo di Lazzaro, invece, palesemente è quello di un uomo ancora morto. Gonfio e abbandonato, rigido, nel gelo del sonno eterno. Ma ecco che nei tendini delle braccia allargate scorre già la vita. Infatti, è proprio alle braccia- spalancate in un gesto che ricorda la croce – che il Caravaggio affida l’annunzio del miracolo e, soprattutto alla mano. Una mano che svetta in alto, centrale, oltre il capo di chi ancora sorregge il corpo morto di Lazzaro che già è di nuovo vivo. Una mano, che raccoglie in sé la poca luce dell’ambiente, volta verso il Cristo che sembra salutare. Più che la descrizione di un miracolo, una fotografia che coglie il processo in itinere. È questo Caravaggio. È questa la sua rappresentazione del sacro, mai mistica, mai stereotipata o sublimata, ma sempre incarnata e frammista alle miserie di questa terra, alla carne e al sangue dei protagonisti: alle rughe della vecchiaia – Cena in Emmaus – , ai piedi sporchi dei poveri scalzi – Madonna dei Pellegrini – , ai corpi rigonfi dall’imminente decomposizione – Morte della vergine. Un disincanto che molti contemporanei non esitarono a giudicare blasfemo. Ma la grandezza del Caravaggio – al di là di quel qualcosa di innominato e innominabile che vibra nelle opere dei grandi geni – forse sta proprio in questo: nell’aver saputo far trapelare i guizzi di luce del grandioso e del sacro,  attraverso le cupe miserie di questa terra.