“Non ho nulla da raccontare, nulla che non sappiate.
Dopo ventisei anni, vorrei che ci fosse qualcosa di nuovo da dire,
lo vorrei disperatamente. Ancora però tutto tace.”
Queste le sole, concise parole di Augusta Schiera, madre del poliziotto Antonino Agostino, ennesima vittima della mafia palermitana. L’uomo, agente del SISDE (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica) in servizio durante i famigerati anni di piombo, venne ucciso il 5 Agosto del 1989 insieme alla moglie Ida, a pochi passi dalla villa di famiglia. Gli omicidi, sicari in motocicletta, spararono ripetutamente ai coniugi e a nulla servirono i soccorsi: i due morirono dopo pochi istanti e ancora oggi non se ne conosce la ragione. Molte ipotesi sono state formulate, molte strade sono state battute, ma sulla faccenda sembra sia difficile fare luce.
Il padre del giovane agente, Vincenzo Agostino ricorda il figlio come un eroe, un uomo senza eguali che ventisei anni orsono ha salvato il Magistrato Falcone da morte certa. Ed è proprio Vincenzo a raccontarci l’accaduto, con amarezza e indignazione, rabbia e frustrazione. Il suo tono concitato, i suoi gesti, la sua veemenza tradiscono il dolore di un padre ferito, tormentato da un inappagata brama di giustizia.
Chi era Antonio Agostino?
“Un eroe, senz’altro un eroe. Un uomo che non ha esitato a compiere il suo dovere, a sacrificare sé stesso per la vita di Giovanni Falcone. La storia di mio figlio, del suo coraggio, della sua scomparsa risalgono al 21 Giugno 1989, al fallito attentato all’Addaura. Quel giorno due agenti, Nino Agostino ed Emanuele Piazza, hanno rivenuto un borsone con ben 58 candelotti pronti a saltare in aria. L’esplosione avrebbe dovuto uccidere il giudice Falcone, ma l’intervento dei poliziotti ha impedito che accadesse. Entrambi l’hanno pagata: mio figlio dopo un mese e mezzo, Emanuele nel Marzo del ’90. Chiunque voglia conoscere la verità deve partire proprio da lì. Se soltanto le autorità lo avessero fatto, non sarei ancora qui a chiedere che venga fatta giustizia.”
Cos’è successo un mese e mezzo dopo l’attentato al magistrato Falcone?
“Quel giorno mio figlio e mia nuora erano a Villagrazia di Carini: avrebbero dovuto trascorrere una giornata in famiglia, ma così non è stato. Stavano per entrare in casa, quando all’improvviso due uomini in moto si sono avvicinati a gran velocità e hanno sparato a Nino, senza fermarsi. Prima che venisse colpito, mio figlio ha spinto via Ida, facendola cadere. Sperava che mia nuora non venisse uccisa, ma è stato inutile. Ida si è rialzata è ha urlato ai due “Io lo so chi siete! Vi riconosco!”. Ebbene, gli uomini non hanno esitato un istante: hanno sparato anche a lei e sono fuggiti via. Parenti e amici ricordano solo il rumore sordo degli spari: nessuno ha potuto far niente, erano morti.
Mia nuora era incinta, lo sa? Quattro mesi dopo avrei visto mio nipote, e invece…”
Vincenzo socchiude gli occhi, pensieroso. Si abbandona ai ricordi, forse ripensa alla nuora in dolce attesa e al bimbo mai nato. Aspetto qualche minuto, sin quando l’uomo non mi fa un cenno con la testa. Nuova domanda.
Quanto tempo è dovuto passare prima che Antonino venisse considerato una vittima di mafia?
“Tanto, troppo. In un primo momento si era parlato persino di omicidio passionale, da non credere. Naturalmente si trattava di depistaggi, assurdi depistaggi. Io l’ho capito subito che non poteva trattarsi di questo e la ricerca della verità per me è iniziata proprio il giorno della morte di mio figlio. A noi genitori non è stato detto neanche cos’era stato trovato in casa di Nino dopo la perquisizione: volevano tenerci all’oscuro, infangare l’accaduto. Ci volevano prendere in giro, ma non ci sono riusciti.
Sapevo che tentavano di nasconderci qualcosa, così ho giurato sulla tomba di mio figlio e di mia nuora che non avrei più tagliato barba e capelli, sin quando non avrei conosciuto la verità.”
Quale pensa sia stato il ruolo dell’agente Guido Paolilli, da poco iscritto nel registro degli indagati?
“L’agente Paolilli è un verme, un quaquaraquà. Si è seduto alla nostra tavola, insieme alla sua famiglia e io tuttora provo vergogna per questo. Paolilli ha tradito la fiducia di mio figlio, senza pensarci un attimo. Nino ha commesso l’errore di confidarsi con una mela marcia del genere, che l’ha pugnalato alle spalle. Voleva smascherare i collusi, sconfiggere la corruzione e invece ne è rimasto vittima. Nel 1985, al Maxi Processo c’era anche Antonino: era lì non soltanto per lavoro, ma perché credeva in quello che stava accadendo. Si trattava di una svolta epocale, mio figlio lo sapeva e voleva esserne parte. Tutto questo ha avuto un prezzo, ma lui era pronto.”
Vincenzo è pervaso dalla rabbia. La sua impotenza di fronte alla morte del figlio lo annienta, lasciandolo senza parole. In pochi istanti i suoi occhi si accendono d’ira, le sue mani cominciano a tremare. È furibondo.
C’è stato un momento in cui, in preda allo sconforto, ha pensato di arrendersi?
“Arrendermi, e perché mai? Cos’ho io da perdere? Vogliono uccidermi? Facciano pure! Non smetterò mai di raccontare le vicende di Nino, di battermi perché sia fatta giustizia. Ogni 21 Marzo io e mia moglie prendiamo parte ad incontri per la legalità in tutta Italia: non vogliamo che nostro figlio venga ricordato con commemorazioni in pompa magna, per celebrare il suo coraggio bastiamo noi. Vogliamo però che tutti vengano a sapere quanto tutto ciò sia ingiusto. Sono trascorsi ben ventisei anni e ancora non ho pace: chi ha ucciso il mio Nino deve pagare e lo farà. Manca poco.”
La famiglia di sua nuora le è stata vicina nella sua quotidiana e faticosa battaglia?
“La famiglia di mia nuora… No, su di loro non ho nulla da dire. No comment.”
Adesso Agostino è visibilmente irritato, la domanda lo ha infastidito. La moglie gli si avvicina, lo accarezza dolcemente, gli porge un bicchiere d’acqua.
Dopo qualche minuto di silenzio Vincenzo mi congeda con gentilezza. Sembra stanco, spossato, schiacciato dal peso dei ricordi: non ha più voglia di raccontare nulla, non oggi. Domani riprenderà