Mi sono sempre domandato come si possa vivere in una città come Messina o, meglio, come tutti noi possiamo viverci ?
Senza industrie, senza lavoro e senza legalità, non potendo essere tutte vittime non rimane che essere considerati, quantomeno al 50%, tutti vermi.
Un città che non molto tempo fa è stata definita Verminaio perché così fu definita dalla commissione nazionale antimafia per la miscela esplosiva degli interessi che la mafia cura e coltiva in questa città con la complicità di pezzi di istituzione
…“Benvenuti a Messina…la città del professore Matteo Bottari , assassinato a causa del malaffare dell’università e per il quale aspettiamo da 3933 gg. i nomi dei mandanti e degli assassini.
Benvenuti a Messina città di Graziella Campagna trucidata a 17 anni dalla mafia per aver visto troppo.. 19 anni di indagini deviate e insabbiate da pezzi dello stato che l’avrebbero dovuta proteggere.
Benvenuti a Messina, nel cui territorio il giornalista Beppe Alfano è stato assassinato perché faceva il suo dovere e lo faceva in un territorio dove non esiste che un giornale con la sua verità.
Benvenuti a Messina, città del Rito Peloritano : una definizione elegante per sintetizzare la disinvolta frequentazione, fuori dal tribunale, di indagati e indagatori.
Ed ancora.. benvenuti a Messina nella cui provincia Adolfo Parmaliana lasciato solo (anche dalla sinistra) a combattere per la legalità sul suo territorio, viene ascoltato dal Presidente della Repubblica che dispose il commissariamento del comune di T.Vigliatore , ma perseguitato dalla magistratura che lo intendeva indagare per diffamazione. Il prof. Parmaliana,lasciato solo da tutti, il 2 ottobre scelse il suicidio come gesto politico di denuncia finale : un suicidio che pesa sulla coscienza di tanti…”
Mi piacerebbe sapere se vi siete offesi o indignati quando hanno detto che viviamo in un verminaio? Avete fatto qualcosa per cambiare le cose? Avete denunciato chi vi ha chiesto soldi per proteggervi? Avete denunciato il datore di lavoro che vi paga in nero o vi fa firmare la busta paga per una somma diversa e superiore rispetto al percepito? Avete denunciato l’appaltatore di lavori pubblici che vi ha subappaltato lavori in nero o vi ha costretto a fare tutto il lavoro con materiali scadenti minacciandovi di levarvi il subappalto?
Certo non posso fare tutti i numerosi e molteplici esempi che ci costringono, giorno dopo giorno, ad accettare compromessi, a turarci il naso pur di sopravvivere, ma posso cercare di analizzare ed evidenziare il più odioso, numeroso, silenzioso e grave dei reati.
L’estorsione art. 629 del c.p. “chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da lire 1 milione (516,46 euro) a 4 milioni (2.065,83). La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da lire 2 milioni (1.032,91) a lire 6 milioni (3.098,74) se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente .” (cioè se l’estorsione, come di solito, è compiuta da un appartenente ad una associazione mafiosa, oppure con armi o atri fatti particolari).
Bisogna subito precisare che estorsione, pizzo e racket pur avendo acquisito nel sentire comune lo stesso significato se ne differenziano tra loro, sia storicamente che per l’attività posta in essere, atta ad integrare la fattispecie di reato.
Ed infatti, mentre il racket, termine di origine inglese che indica attività criminali finalizzate al controllo di determinati settori delle attività economiche e commerciali, estorcendo denaro con la minaccia o la violenza e punendo materialmente chi si rifiuta di sottostare a questo sistema, o pizzo, una forma di estorsione praticata dalla mafia consistente nel pretendere il versamento di una percentuale sull’incasso o di una quota fissa da parte di negozianti e imprenditori in cambio di una supposta “protezione”, sono delle attività criminose, generalmente volte ad ottenere da parte di un operatore economico un pagamento periodico in cambio di una offerta di protezione. L’estorsione, tecnicamente intesa, è un’attività intimidatoria o meglio è il fatto di reato consiste nell’usare violenza o minaccia relative per fare cadere la persona offesa in uno stato di costrizione psichica al fine di ottenere un profitto ingiusto con altrui danno.
La violenza o minaccia devono essere usati come mezzo per causare la dipendenza psicologica che costringe la volontà della vittima a porre in essere un atto di disposizione patrimoniale lesivo del proprio patrimonio. Ma tale violenza o minaccia è relativa e non assoluta. In altri termini nell’estorsione la violenza o minaccia devono lasciare alla vittima un minimo di libertà, di possibilità di volere, che le permetta di scegliere e conseguentemente di agire in prima persona compiendo l’atto di disposizione patrimoniale. Ove così non fosse, cioè ove la violenza e la minaccia fossero assolute, tanto da non aversi più la libertà d’agire della vittima saremmo di fronte ad una rapina (art.628 c.p.).
E sempre continuando nelle superiore differenza, la violenza, per aversi una rapina, deve essere rivolta esclusivamente sulle persone mentre nell’estorsione è proprio la violenza sulle cose ( si pensi all’incendio doloso del un camion di un’impresa o all’incendio di una saracinesca di un negozio ) che caratterizza il fatto estorsivo. Ovviamente non si esclude neanche la violenza sulle persone, si pensi ad esempio al sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) dove la liberazione della persona del sequestrato è mezzo per conseguire un ingiusto profitto.
Con riferimento al requisito della minaccia essa deve essere idonea a costringere il soggetto a compiere l’atto di disposizione patrimoniale ( si pensi alla classica telefonata con richiesta di denaro), essa può anche consistere in una omissione, a condizione, ovviamente, che colui che omette copra una posizione di garanzia in ordine al compimento di quell’atto che si è omesso.
Il reato di estorsione è stato inserito dal legislatore del 1930 nel libro II , titolo XIII, capo I del codice penale che attiene ai delitti contro il patrimonio commessi mediante violenza alle cose o alle persone. Precedentemente non si parlava di patrimonio ma di proprietà, vi è stato nel 1930 un estensione del concetto giuridico. Infatti il patrimonio da un punto di vista giuridico può essere definito come il complesso dei rapporti giuridici, dei beni e dei diritti che fanno capo ad una determinata persona e possono avere sia un contenuto patrimoniale (un valore di scambio suscettibile di valutazione economica) o un valore d’uso (anche affettivo, si pensi ad una lettera, una cartolina oppure ad una fotografia).
Il bene giuridico tutelato dalla norma diventa quindi duplice; da un lato si protegge l’inviolabilità del patrimonio e dall’altra la libertà di determinazione individuale contro fatti di coercizione. Il presupposto del reato di estorsione è la coartazione della vittima attraverso l’impiego di violenza o minaccia che, come detto, non deve annullare del tutto la libertà dei soggetti passivi del reato.
In definitiva il reato di estorsione è caratterizzato, dal punto di vista soggettivo, dalla piena consapevolezza di usare la violenza fisica o morale, per potere procurare ad altri oppure a sé un profitto ingiusto. Pertanto, il dolo ovvero la coincidenza tra il voluto ed il realizzato deve estendersi e comprendere anche l’ingiustizia del profitto che rappresenta uno degli elementi materiali del reato.
Per comprendere quanto questa figura di reato sia odiosa, grave e limitativa della libertà delle persone basta riflettere che essa pur avendo ad oggetto la lesione di valori economici (il patrimonio della vittima) si riflette sul vivere quotidiano della vittima, sulla sua esistenza e sulla sua sopravvivenza.
Se si potesse fare, sia pure per assurdo, una valutazione tra la rapina e l’estorsione, la prima essendo un fatto di reato istantaneo ed isolato incide sulla psiche della vittima in modo meno doloroso e duraturo rispetto all’estorsione, al pizzo e al racket, che si protrae nel tempo di anno in anno e di mese in mese.
E quelle poche parole sentite per la prima volta al telefono “prepara tremila euro, o cinquemila, o cinquantamila se no ti facciamo saltare la macchina, il camion, la casa…la vita” le risenti di mese in mese, di volta in volta ad ogni pagamento e ad ogni scadenza.
Ma la figura penale dell’estorsione va ben oltre la semplice richiesta di denaro dietro promessa di protezione, essa è un cancro sociale di cui tutti, bene o male, siamo stati vittime sia pure indirettamente. Chi non ha una amica, un conoscente, un parente costretto a lavorare in nero o sottopagato rispetto all’orario di lavoro prestato? Bene, anche questa è estorsione.
Lo ha stabilito la cassazione con la sentenza n. 36642 05/10/2007. Infatti, è considerata estorsiva la condotta del datore di lavoro consistente nel prospettare ad alcuni suoi dipendenti «la mancata assunzione, il licenziamento o la mancata corresponsione della retribuzione, nel caso in cui non avessero accettato le condizioni di lavoro loro imposte, ed in particolare costringendoli ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e alla contrattazione collettiva, quali: lavoro in nero, trattamenti economici inferiori rispetto a quello pattuito, sottoscrizione di lettere di dimissioni in bianco, rinuncia a godere di congedi per malattia o per infortunio sul lavoro”».
In sostanza, l’estorsione art. 629, c.p. – ossia il fatto di chi «mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con l’altrui danno» – pur essendo una tipica modalità operativa della criminalità organizzata (si pensi al racket e, quindi, alla richiesta del pizzo), può essere imputata anche a carico del datore di lavoro, sussistendone i presupposti: la violenza o minaccia e l’ingiustizia del profitto conseguito dall’agente con danno alla parte offesa.
la Cassazione ribadisce che «la minaccia, quale elemento costitutivo del delitto di estorsione, non richiede necessariamente che la coartazione avvenga mediante la minaccia di un male irreparabile alle persone o alle cose, tale da non lasciare al soggetto passivo una libertà di scelta, essendo sufficiente la prospettazione di un male che in relazione alle circostanze che l’accompagnano sia tale da far sorgere nella vittima il timore di un concreto pregiudizio».
La minaccia talvolta può manifestarsi anche implicitamente ed indirettamente o addirittura mediante consigli, esortazioni o suggerimenti formalmente corretti, ma tali da infondere timore nel soggetto passivo e forzarne la volontà. Ed è proprio quest’ultima la condotta che caratterizza principalmente il comportamento estorsivo imputabile al datore di lavoro. Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, in presenza di una legittima aspettativa di assunzione, costringa l’aspirante lavoratore ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi; quella del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi; quella dell’imprenditore che prospetti ai dipendenti, in un contesto di grave crisi occupazionale, la perdita del posto di lavoro per il caso in cui non accettino un trattamento economico inferiore a quello risultante dalle buste paga».
Pertanto nel caso in oggetto, «l’ingiusto profitto è rappresentato dalla mancata erogazione delle somme legalmente dovute (dal datore di lavoro), anche per oneri contributivi e previdenziali e prestazioni di lavoro straordinario, con pari danno per i lavoratori».
In altri termini «in nessun caso può essere legittimata e ricondotta alla normale dinamica di rapporti di lavoro un’attività minatoria, in danno di lavoratori dipendenti, che approfitti delle difficoltà economiche o della situazione precaria del mercato del lavoro per ottenere il loro consenso a subire condizioni di lavoro deteriori rispetto a quelle previste dall’ordinamento giuridico, in attuazione delle garanzie che la Costituzione della Repubblica pone a tutela della libertà, dignità e dei diritti di chi lavora».
Un’altra domanda a cui bisogna rispondere è quella relativa all’eventuale responsabilità della vittima. Ed invero, la libera volontà di diminuire il proprio patrimonio in dipendenza di una presunta “protezione” da parte del racket in non poche occasioni ha comportato la prospettazione del reato di favoreggiamento in capo alla vittima. Infatti in base agli artt. 378 e 379 del c.p. Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce la pena di morte (1)o l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’Autorita’, o a sottrarsi alle ricerche di questa, e’ punito con la reclusione fino a quattro anni. Quando il delitto commesso e’ quello previsto dall’articolo 416 bis,(associazione mafiosa) si applica, in ogni caso, la pena della reclusione non inferiore a due anni (2) . Se si tratta di delitti per i quali la legge stabilisce una pena diversa, ovvero di contravvenzioni, la pena e’ della multa fino a lire un milione. Ed ancora Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o dei casi previsti dagli articoli 648, 648 bis e 648 ter, aiuta taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato, e’ punito con la reclusione fino a cinque anni se si tratta di delitto, e con la multa da lire centomila a due milioni…..
E’ evidente che reticenze, silenzi e connivenze molto spesso hanno agevolato il diffondersi del pizzo ma questo non basta a fare delle vittime dei colpevoli, paure, timori di un male maggiore e danneggiamenti spesso fanno turare il naso e chiudere gli occhi.
In questo senso “si possono adottare modelli o cataloghi di comportamento, come ha fatto la Calcestruzzi, per aiutare le imprese già inquinate a sottrarsi al condizionamento mafioso. È’ verso questi obiettivi che dovrebbe mirare l´importante mobilitazione di Confindustria Sicilia. Non si tratta solo di invitare gli imprenditori e i commercianti a non pagare. Bisogna nello stesso tempo definire gli strumenti e le strategie di intervento per passare dai propositi alle azioni di prevenzione e disinquinamento concrete».
Per questi motivi e confortato dalla dottrina anche io sono contrario a nuove norme per sanzionare chi versa la tassa a Cosa nostra. «Il reato di pagamento di pizzo non esiste. E sarebbe incostituzionale e irragionevole inventare… la configurazione del pagamento del pizzo come illecito penale o illecito di altro genere. La repressione è frutto di un approccio antiquato e profondamente contraddittorio. Finché nel nostro ordinamento esiste il reato di estorsione, così come oggi è configurato, sarebbe poco logico considerare imprenditori e commercianti non solo vittime dell´estorsione ma anche autori dell´illecito».
Ed anche se in questo momento c´è la tendenza a considerare non più vittima chi paga e non denuncia, o ancora peggio nega. «Il pagamento del pizzo in condizioni di intimidazione non si può configurare come reato. Negare può costituire favoreggiamento, non perché si paga ma perché non si informano i magistrati sull´estorsione subita. In ogni caso è sbagliato prendere le mosse da pregiudiziali sociologiche o ideologiche astratte del tipo: quelli che pagano sono tutti vittime o quelli che pagano sono tutti collusi. (da un intervento dell Prof. ed insigne giurista Fiandaca).
Avv. Pietro Giunta