E’ conosciuto ai più come il processo della trattativa tra Stato e mafia. In realtà, l’impianto accusatorio, meno roboante e con un minor impatto mediatico, si basa sulla violazione dell’art. 338 c.p. Un concorso criminoso nel reato di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario.
In altri termini, l’ipotesi accusatorio messa in piedi dall’allora p.m. Antonio Ingroia e dagli altri pubblici ministeri di Palermo prende la mosse dalla conferma in Cassazione il 30 gennaio 1992 delle condanne inflitte ai boss nel maxiprocesso. Condanne che hanno messo in crisi la tradizionale impunità di cui cosa nostra godeva. La reazione della mafia è storia e “le stragi costituivano, in questa prospettiva, uno strumento necessario per piegare psicologicamente il ceto politico di governo, nel senso di indurlo a desistere da una lotta a tutto campo contro la mafia, in vista di nuove intese basate sulla vecchia logica della reciprocità dei favori” (Giovanni Fiandaca)
Il Piano stragista iniziato con l’omicidio di Salvo Lima nel 1992 prevedeva l’uccisione di altri uomini politici di rilievo come Giulio Andreotti, Claudio Martelli, Calogero Mannino e altri: colpevoli, secondo i boss, di aver tradito Cosa nostra e non aver mantenuto la promessa di aggiustare il maxiprocesso in Cassazione. Era il periodo del Giudice Corrado Carnevale, il Presidente della Corte di Cassazione, conosciuto come l’ammazza sentenze, indagato nel 1993 per concorso esterno alla mafia e condannato dalla Corte di Appello di Palermo il 29 giugno 2001 a sei anni di carcere, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale lungo l’arco della pena. Ma un anno dopo la Cassazione ribaltò completamente la condanna e il 30 ottobre 2002 lo assolse senza rinvio ad altro giudice «perché il fatto non sussiste».
In questo contesto storico, secondo i pubblici ministeri di Palermo, si inserirono i ROS che sollecitati da uno dei politici minacciati, l’ex Ministro Calogero Mannino, contattarono Vito Ciancimino, tramite con il vertice mafioso corleonese, per tastare il terreno e verificare cosa i capi-mafia potessero richiedere e cosa lo Stato, dal canto suo, potesse ragionevolmente ‘concedere’ per bloccare le minacce stragiste. Furono il Generale dell’Arma Mario Mori, uomo dei servizi segreti e già direttore del Sisde, e Giuseppe De Donno, ex Colonello dell’Arma, a contattare prima Massimo Ciancimino e poi il Padre Vito.
Se questo è l’inizio, l’ipotesi accusatoria è ben più complessa. Essa suppone un disegno criminoso che copre un ventennio, dalla meta degli Ottanta alla fine degli anni Novanta, che presuppone a sua volta l’idea di un intreccio e di una interazione tra un sistema criminale mafioso e un sistema criminale non mafioso, costituito da massoneria deviata, finanza criminale, destra eversiva e frange dei sevizi segreti. Questa coesistenza di sistemi criminali diversi, mafioso e non, avrebbe avuto alla base, più che un’unica regia, una «convergenza di interessi. Rifondare il rapporto di fiducia tra mafia e politica attraverso degli uomini di collegamento centrali come Marcello Dell’Utri. Sarebbe poi toccato alla nascente “Forza Italia” farsi carico del rinnovato compromesso tra politica e poteri criminali.
Dalla complessità dell’indagine ne deriva, secondo la teoria dei sistemi criminali della Procura di Palermo, che nello stesso processo si trovino oggi imputati mafiosi, politici e forze dell’ordine (i mafiosi Salvatore Riina, Antonino Cina’, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Massimo Ciancimino, gli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri, Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, l’ex senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino). Ma non basta, perché tenendo a mente che la responsabilità penale è personale e che non si tratta di un singolo fatto criminale, molti degli imputati a loro volta sono chiamati a rispondere in altri processi dei singoli fatti delittuosi e così abbiamo che il Gen. Mori e Mauro Obino, assolti in primo grado, attualmente stanno affrontando un processo d’appello per favoreggiamento per il mancato arresto di Provenzano nel 1995, Massimo Ciancimino deve rispondere in diversi processi per calunnia aggravata e l’Ex Ministro Mancino deve rispondere anche di falsa testimonianza.
In altri termini, nel processo trattativa si presuppone il concorso criminale tra i partecipanti non ad un singolo fatto ma a tutta una serie fatti, atti e omissioni, compiuti in vasto arco temporale e finalizzato a restaurare i vecchi rapporti che esistevano tra mafia e politica prima del maxiprocesso. Ed è anche per questo che le singole udienze del processo che si sta svolgendo presso la Corte d’Assise d’Appello di Palermo, di volta in volta, sembrano, a secondo del teste ascoltato, delle istantanee di fatti diversi tra loro che cristallizzano nel tempo le varie vicende della storia criminale mafiosa del Paese. Dalla mancata cattura del boss catanese Nitto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto, alla ricostruzione degli incontri romani del Gen. Mori con il defunto Francesco Di Maggio, magistrato scomparso nel 1996, che fu vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) nel 1993.
Non è una novità il fatto che da un punto di vista tecnico-giuridico l’impianto accusatorio abbia dato il via ad aspre polemiche e in questo senso molti giuristi si sono chiesti se la teoria dei sistemi criminali, cioè un sistema criminale mafioso e un sistema criminale non mafioso uniti nella forma del concorso nel reato di cui all’art. 388 c.p. possa reggere da un punto di vista processuale-penalistico. Tanto per fare un esempio il famoso processo per favoreggiamento contro il Gen. Mori, già in primo grado ha sottolineato con una sentenza di oltre 1300 pagine non solo che il fatto, cioè la mancata cattura di Provenzano, non è “stata” una volontà di voler favorire la mafia, ma anche che in massima parte la vicenda può essere inquadrata nell’ambito dei disguidi, errori e approssimazioni delle forze dell’ordine che, in ogni caso, non hanno rilevanza penale. In questa prospettiva molte vicende “mafiose” possono assumere gli stessi caratteri. Dalla mancata perquisizione del covo di Totò Riina alla mancata cattura del boss di Catania Nitto Santapaola, senza che questo voglia dire che è già certa l’assenza di responsabilità penale di molti dei protagonisti della trattativa, essendo il processo ancora in fase dibattimentale.
Tra le critiche maggiori alla Procura di Palermo vi è quella dello storico Salvatore Lupo. «Continuo a non capire, per fare un esempio, per quale ragione i grandi poteri affaristico-politici, spesso chiamati in causa avrebbero dovuto affidare a Cosa nostra il mandato per la strage degli Uffizi». Sarebbe fin troppo facile, proseguendo nella critica alla tendenza giudiziale ad evocare perversi quanto indefiniti intrecci tra poteri criminali ed entità occulte (servizi segreti, massoneria deviata, finanza criminale et similia), avanzare il sospetto che neppure i magistrati dell’accusa siano immuni da quella sindrome nota come “ossessione del complotto”, che incessantemente alimenta – di epoca in epoca – le teorie cosiddette cospirative della storia: le quali tendono a spiegare avvenimenti che hanno cause plurime e complesse, e perciò difficili da individuare, come se fossero appunto frutto di diabolici disegni e di strategie unitarie nelle mani di Signori del male o del crimine.
E’ stato lo stesso P.M del processo trattativa, Nino Di Matteo, a rispondere punto per punto alle critiche avanzate e a battibeccare per le rime con il giurista Giovanni Fiandaca, che in un lavoro dal titolo “La trattativa Stato-mafia tra processo politico e processo penale” aveva tentato di smontare l’impianto accusatorio prima ancora che si svolgesse la fase dibattimentale. Oppure a replicare con sdegno a coloro che nel processo trattativa hanno voluto vedere un tentativo di farsi pubblicità mediatica o un trampolino per la carriera.
P.G.