Per la III edizione del Corso coordinato dalla prof.ssa Cocchiara “Donne, politica e
istituzioni”, si è svolto ieri, alle ore 15.30, all’Università di Messina, l’incontro-dibattito dal titolo: Un’altra donna contro la mafia: Angelina Gentile Manca. Con la collaborazione dell’Associazione Antimafie “Rita Atria” e della neonata Associazione Nazionale Amici Attilio Manca.
Il caso Manca, come altri casi di mafia, offre lo spunto per una riflessione da una prospettiva femminile. Sì è detto della struttura patriarcale dell’organizzazione mafiosa e del ruolo marginale delle donne al suo interno. Queste diventano protagoniste solo per salvaguardare la continuità del sistema mafioso, la donna è la maggiore se non l’unica responsabile della trasmissione di tali modelli culturali e disvalori, garante della reputazione dei propri uomini. L’uomo d’onore che dimostra di esercitare una ‘signoria’ sulla famiglia di sangue, può estendere tale dominio su tutto il territorio (Mafia-Donna, le vestali del sacro e dell’onore, Teresa Principato, Alessandra Dino, 1997). Pensiamo alla madre di Rita Atria che rompe la tomba della figlia che si era ribellata al sistema.
Così come il ruolo delle donne di mafia può essere filtrato attraverso i segmenti di reazione e di interazione. Le madri, le figlie e le mogli dei mafiosi maschi sono esposte, anche se ai margini, agli affari criminali dei loro figli padri o mariti. Molto spesso questa esposizione alimenta il fascino del crimine e del potere, l’accesso al quale alle donne è stato per lungo tempo negato. Così nell’antimafia, i rapporti potrebbero essere descritti con le stesse dinamiche di reazione e interazione. In entrambi i casi, l’elemento che muove è l’angoscia che la mafia suscita nell’individuo come un sistema totalitario, claustrofobico. Abbiamo conosciuto in un precedente incontro Michela Buscemi, donna dallo straordinario coraggio che non ha difficoltà a raccontare anche gli aspetti più intimi della sua vicenda umana, dotata di una potenza comunicativa fuori dall’ordinario.
Angela Manca, di contro, è una donna della buona borghesia di provincia, ben introdotta nel tessuto sociale di Barcellona, con un alto livello d’istruzione e un passato da insegnante. Una, insomma, che nella vita, almeno fino al 2004, non aveva dovuto affrontare particolari difficoltà. Si trova con la morte del figlio di fronte al più doloroso dei drammi umani, sopravvivere al proprio figliolo e al contempo scontrarsi con una realtà che mai avrebbe immaginato di poterla sfiorare, che conosceva solo attraverso le cronache dei giornali: la mafia.
Che fare, come reagire? Angela sceglie la rielaborazione pubblica del lutto (Siebert) e, a dispetto del paradigma del “familismo amorale” di Banfield ( Le basi morali di una società arretrata, 1976) sceglie l’azione e l’impegno civile.
Bisogna fare attenzione che tale “familismo a-morale” non diventi, ribaltandone la formula, “familismo morale”, sempre ancorato alla ricerca del vantaggio per la propria famiglia nucleare, questa volta in termini di giustizia. Non si può restare nella logica del clan ma rivolgersi ad una logica pubblica. Io reagisco in quanto soggetto pubblico, poiché il danno arrecato è un crimine contro l’intera comunità. Bisogna pertanto fare tesoro del significato di queste forme di reazione, sul passaggio dal livello emozionale ad un livello sociale e politico. I rituali, il pianto di Angelina, uniscono, scongiurano il dolore e trasmettono valori, poi tocca pianificare il riscatto. E le donne? Ci rimproverano di essere troppo inclini all’introspezione.
La modernità ci impone di buttare l’acqua del nostro parto fuori dalle mura domestiche, come già per gli uomini (vedi E. De martino). Lo faremo, ma nel modo che ci rende differenti.