È passato oltre un mese dal 5 Febbraio 2011, dalla manifestazione indetta dall’associazione Libertà e Giustizia al Palasharp di Milano, dalla forte carica emotiva che ha consegnato all’opinione pubblica, dalla volontà di far ripartire un’Italia che non sembra definitivamente pronta per superare la stagione del berlusconismo, che rischia di perdurare al Premier stesso. Umberto Eco, Paul Ginsborg, Gustavo Zagrebelsky. Ma più di tutti, Roberto Saviano. Più di tutti perché si respira sempre un’atmosfera diversa quando lo scrittore campano prende la parola da un palco, da uno studio televisivo, persino quando interviene su un giornale; più di tutti perché, se scendessi a fare un giro per un quartiere popolare come il mio, dove il rapporto principale che si ha con la politica riguarda le promesse elettorali mai mantenute, se chiedessi in giro, probabilmente nessuno saprebbe identificare la sagoma o il ruolo di tutti gli altri firmatari ed organizzatori dell’evento dello scorso febbraio, ma di Saviano si. Perché Saviano è Saviano, verrebbe da dire, perché è diventata una di quelle figure che rompono l’Italia fra i pro e i contro, gli adulatori e gli accusatori. Il povero Roberto Saviano è diventato senza alcuna colpa una delle manifestazioni più imponenti della nuova idolatria italiana, sempre più plasmata sulle logiche del televoto, del tifo da stadio, del si o no, dentro o fuori. Sempre più frutto dell’esilio che condanna la razionalità critica ed il dialogo democratico fuori dai confini del Belpaese. E nell’avvantaggiarsi di tale esilio il berlusconismo è stato senz’altro assoluto protagonista.
La “discesa in campo” dell’uomo che si è fatto da se, che dal 1994 ha occupato la poltrona di Primo Ministro per circa 7 anni e 5 mesi – intervallati dalle incompetenze, dalle distrazioni, dalle collusioni, dalle nefandezze del centro-sinistra – , l’uomo che ha saputo farsi amare dagli italiani per i suoi sproloqui e per le battute, per la capacità di esaltare la “curva” di spettatori politici allontanatisi dalle tribune pubbliche dopo la vicenda Tangentopoli, il primo dei “sei con me o contro di me” della contemporaneità politica. È pur vero, in ogni caso, che l’avvento di ogni potere carismatico, che esalta le masse e le civilizza secondo l’opinione più comoda a se stesso, necessita di un vuoto della ragione all’interno della società stessa, del vuoto di un’intersoggettività dai caratteri inevitabilmente politici che è la matrice stessa della libertà e della democrazia. Proprio Saviano intervenne al Palasharp affermando che «l’Italia oggi non è un Paese libero». Non da oggi, a mio parere. La realtà, infatti, è che un Paese realmente libero e democratico non potrebbe creare le condizioni per l’ascesa al potere del sultano di turno, né, naturalmente, una democrazia catatonica sarebbe in grado di fermare tale ascesa e di guarirsi dal cancro dell’incapacità di un dialogo e di una partecipazione veri da parte della cittadinanza. Tutto ciò ha una sua conclusione logica: la mancata circolazione delle idee in una società apre la strada dell’idolatria.
Il dramma dell’altra parte
Sulla scia dell’esempio del Berlusconi, la popolazione privata della propria coscienza e del proprio libero uso dell’intelletto si è appigliata – anche dall’altra parte – al Salvatore di turno, altrettanto capace di aizzare la folla contro l’avversario politico/televisivo da abbattere, altrettanto loquace ed altrettanto impertinente da attirare il favore del pubblico. Una lunga sfilza di nomi ha vestito – e veste ancora, spesso a sua insaputa – i panni del “paladino della causa della parte opposta”, anche se in questi ultimi atti della tragica storia della nostra terra, le figure che si sono alternate in questo ruolo, che spesso si accompagnano e si confondono, hanno assunto – e assumono – i volti – vecchi e nuovi – di Beppe Grillo, Gianfranco Fini, Nichi Vendola e Roberto Saviano. La crisi del leader è l’elemento distintivo della Sinistra italiana fin dalla morte di Enrico Berlinguer, ed è stata identificata come la causa degli insuccessi politici di parte contro il male berlusconiano che oramai si approssima alla fine, compiendo anch’esso il suo ventennio. Gli elettori del centro-sinistra, privi di un partito forte e di una leadership capace, hanno così cercato disperatamente nei dintorni della realtà sociale attuale il proprio Robespierre, il nuovo Mosè, capace di guidarli alla vittoria o alla salvezza, il legislatore rousseauiano che indirizza il popolo sulla via retta, il filosofo-re platonico conoscitore della Verità, il partito-avanguardia marxista educatore delle genti. Ma dietro tutto ciò si cela – si è sempre celato – soltanto il Principe machiavelliano, che dirige, comanda e mente in nome della “ragion di Stato”. Questo è il risultato della spoliticizzazione della vita in comune, dell’adesione cieca ad opinioni preconfezionate, dell’intellettualismo prono e complice alla Giuliano Ferrara, dell’illiberalità della nostra società, che ci costringe alla libertà privata per spazzarci fuori dal dibattito pubblico dell’essere e del fare, che riduce ogni verità a mera opinione, che ci conforma ed allo stesso tempo ci allontana gli uni dagli altri, tagliati fuori dalla circolazione dei pensieri, dal dialogo vero e spontaneo all’interno di una comunità, l’unica arma per contrastare la forza omologante e totalitaria del potere dello Stato contemporaneo, sempre più astratto e inconsistente, disumano nella sua struttura tecnico-scientifica, tirannico nei suoi monopoli di forza bruta. In fondo, gli elettori/spettatori del centro-destra hanno solo trovato quel che gli elettori/spettatori del centro sinistra cercano da più di 25 anni.
Oggi accettiamo come scontata l’incapacità di capire della realtà pubblica da parte degli individui, e ci accontentiamo che si erga su di noi un leader capace di guidarci alla salvezza, trattando come utopica l’idea che le persone siano in grado di scegliere coerentemente e razionalmente della propria vita e della vita del proprio Stato. Aspettando il messia con le risposte in tasca per non sforzarci di trovarle da soli, tramite la parola, tramite il confronto, riprendendoci quella libertà che ci è stata rubata grazie alla nostra complicità, la libertà di parlare, di ragionare, e di plasmare insieme la realtà che insieme dobbiamo vivere, attendendo il nuovo Gesù di Nazareth, ci adeguiamo allo schifo che vediamo come le foglie gialle si adeguano al soffiare del vento. Ma non siamo i soli.
Non è finita
Tutto il mondo “evoluto” ha rinunciato alla propria spontanea relazionalità in nome del progresso economico, a fronte di un progresso civile che ha cominciato la sua discesa dalla morte delle Poleis greche e del loro ideale di uguaglianza e di libertà attiva dei cittadini. Noi abbiamo preferito che il Principe decidesse per noi, ed il Principe decide ancora, non più soltanto sotto le pure vesti statuali, ma anche nella figura neoplatonica del profeta-manager, portatore dell’unica via percorribile per raggiungere i campi elisi del benessere economico, che tramuta con il proprio ingegno revival di fabbriche ottocentesche in geniali idee per l’industria del futuro. Sergio Marchionne è lui stesso l’uomo del futuro, l’uomo della nuova “discesa in campo”, il nuovo uomo del “sei con me o contro di me”, ed anche lui ha spezzato l’opinione pubblica, l’ha frantumata, e camminando sopra i suoi cocci sparsi come Gesù Cristo camminò sulle acque del Mare di Galilea, ha risposto alle domande di una Nazione sempre più incapace di ragionare, e sempre più in attesa dell’uomo straordinario a cui affidare le proprie sorti.
L’Italia, tuttavia, ha un privilegio fra i Paesi dell’Occidente. Ha la possibilità di vedere la lontananza dal potere, di percepire la disuguaglianza sociale, di rendersi conto della realtà dittatoriale che la domina. Tocca, ancora una volta, gli italiani capire che la soluzione non si trova nel consegnare corona e scettro ai nuovi dominatori, ma nel rompere le catene della dominazione, cosa che il liberalismo si è illuso di fare duecentocinquanta anni fa. Riappropriamoci della nostra Polis allora, ricominciamo ad essere cittadini.
«La Polis, propriamente, non è la città-stato in quanto entità fisica ma una forma di organizzazione nella quale ogni membro partecipa all’azione e al discorso comunitari, la cui collocazione più autentica è fra persone che vivono insieme a tale scopo, non importa dove esse si trovino»
(Hannah Arendt, The Human Condition)