Che è successo? Niente. Come niente? Niente. È morto un ragazzo a Lettere, non lo sai? Si, lo so. Si è ammazzato! Già. E allora? Cose che capitano.
Ma chi lo conosceva Norman Zarcone. Ma chi lo conosce adesso. Solo un nessuno fra altre mille, diecimila, centomila anonime figure che si scontrano fra i palazzoni di Viale delle Scienze. Lo chiamerò N – e forse a lui non dispiacerà, che con le lettere era abituato ad averci a che fare – , N si. N come Nessuno. Era nessuno N, ma non più degli altri: nessuno come G che scrive, come X, W, H che legge. Nessuno come tutti gli altri N dell’università, tutti gli altri N che hanno riposto nella formazione statale il proprio futuro, e che, a differenza del nostro N, non hanno ancora trovato il coraggio di prendersi il proprio spazio di vita repressa in un volo liberatorio da un settimo piano della propria prigione. Ma N è – lo sanno bene gli studenti di Scienze MM. FF. NN., che quest’anno vedranno sparire i 9/10 dei corsi di laurea della propria facoltà, nel silenzio e nella calma generale – un cosiddetto numero naturale. Un numero N, per nulla diverso da quei miliardi di numeri che in questo tempo che chiamano “crisi” fanno impazzire T, mentre un’altra G ed S cercano volenterosamente di accontentarlo, mettendo sul vassoio quelle che sono sempre le prime portate a sparire dalla tavola durante i ricchi banchetti di Stato in tempo di “crisi”, l’istruzione ed il lavoro. Insomma, il solito “In culo a Z”, centenario motto di ogni pseudo crisi, dove Z sono i soliti, gli ultimi, gli unici. Gli unici che pagano, gli unici che piangono, gli unici che crepano.
L’università, dove non si crea nulla, dove il nulla ti circonda, ti prende, ti ingloba, dove non ti è chiesto di fare nulla – eccetto di conformarti al nulla – , praticamente per nulla, certamente non aspettandoti nulla per nulla, o nulla in generale. Lezioni da nulla di docenti da nulla, esami da nulla sostenuti da studenti da nulla secondo piani di studio da nulla, elezioni da nulla di rappresentanti da nulla perfettamente integrati nel nulla più totale. L’università dove cerchi di crescere, di maturare, di diventare grande, dove cerchi di dimostrare cosa sei, quello che vali. Dove la risposta arriva secca: nulla. L’università dove porgi il braccio anemico ai dottori del tuo futuro, quelli che ti prelevano dalle arterie la speranza, la passione, che ti analizzano il “merito”, lo sorseggiano questo “merito”, lo fanno volteggiare nei loro calici da vino, ne osservano il colore, la qualità, l’annata, ne costatano il retrogusto amaro, e te lo sputano in faccia. Inutile. Merito che non vale nulla. Meglio, merito nocivo al nulla, che deve essere, perciò, annullato.
Il 13 settembre 2010 un povero N si è lanciato dal settimo piano della sua anonima facoltà di un anonimo ateneo. Non è il primo né l’ultimo folle suicida il nostro N, incapace di vivere senza programmarsi la vita, intrappolato nei suoi sogni di carriera, nelle illusioni del posto sicuro, del futuro certo. Il folle gesto di un folle, nient’altro. Perché devi certamente essere folle per lanciarti da una finestra, per cercare la libertà di esistere e di continuare a farlo, in un volo fugace, mentre l’Università ti bisbiglia lentamente ed impercettibilmente che sei già morto, che non esisti davvero se lo Stato non ti da il permesso. Una notizia qua e là. Niente di particolare, il sempreverde – e sintomo di una sempre più evidente incapacità di ragionare, di esporsi, di esagerare, se è il caso, di mettersi in gioco, di prendersi la responsabilità delle proprie idee, di abbandonare il grigiore insipido ed anonimo che il nuovo giornalismo maschera da imparzialità – , il sempreverde identikit completo di protagonista e deuteragonisti. N «ragazzo di 27 anni, studente modello, laureato con lode in Filosofia della conoscenza e della comunicazione e dottorando a fine corso a Palermo; giornalista pubblicista, suonava il piano e la chitarra e coltivava il sogno di diventare ricercatore. Fidanzato da tempo, cercava un lavoro anche per potersi sposare; per arrotondare svolgeva l’attività di bagnino al circolo nautico guadagnando 25 euro al giorno». Il padre C «giornalista e impiegato in pensione della Regione che in passato è stato addetto stampa di alcuni assessori (fra cui Fabio Granata)». Il fratello D «che lavora nel servizio di emergenza sanitaria del 118». La fidanzata, i colleghi, i professori, gli amici, i presidi, i rettori, gli assessori, i ministri; ad ognuno la sua parte. E gli spettatori l’hanno visto sfrecciare come una saetta dalle finestre televisive il dottorando N, un fulmine a ciel sereno nella limpida situazione dell’università siciliana ed italiana. Cometa accecante ed impatto sordo; non si è propagata l’onda sismica di quel corpo sul tetto, l’onda d’informazione, di sconcerto, di amarezza, di disgusto. In fondo un ragazzo che si ammazza perché incapace di intravedere un futuro non molto prossimo, non è una notizia che vale. Di certo non è una notizia che vale. E forse non è una notizia che conviene.
“La libertà di pensare è anche la libertà di morire. Mi attende una nuova scoperta anche se non potrò commentarla”. Queste parole gli hanno attribuito, per dare un tono poetico ad un tonfo sordo ed una chiazza puzzolente color rosso vivo. Per dare un senso alla sua morte continuano a smontare pezzo per pezzo il poco sano che ancora si annusa dentro l’università statale, plaudendo ai continui insulti di un Ministro della Repubblica che riesce a far parte di quel 67% della nostra classe politica che si trova in possesso di una laurea, solo grazie a quantomeno discutibili – e quasi propense a ben poco lusinghiere insinuazioni – scelte logistiche. Folle o martire conta poco, la macchia è già stata pulita, la Procura indaga, la vita è tornata serena nella Palermo universitaria. La parabola aerea di N è servita a molti – almeno per un po’: a chi vuole allontanare lo sguardo dalla condizione tremenda di un ateneo incapace di garantire i corsi alla quasi totalità degli studenti, sconquassato dagli scandali delle lauree false – evidentemente lo scandalo sta nella truffa universitaria fai-da-te, senza l’intromissione di potenti e potentati interni ed esterni – e dei buchi di bilancio fatti in casa, succube di tagli che attirerebbero la stima del dottor Guillotin, e succube di una fame di danari che lo rende incapace – volutamente incapace – di comunicare con chiarezza lo stato attuale – reale – dell’offerta formativa, secondo quella tendenza che conduce i mezzani, soverchiati dai primi, a prevaricare gli ultimi, Z per essere chiari; ma il tuffo di N è servito anche a chi vuole distruggere senza ricostruire, a chi vuole affondare – secondo il gioco e gli ordini dall’alto – l’unico mezzo che riesce ancora a vomitare, insieme al fango, quel minuscolo grumo di individui semi-liberi e semi-capaci che sono la speranza di un Paese a pezzi. La realtà dell’ateneo di Palermo oggi è fatta di studenti ciechi come non avrebbe saputo descriverli nemmeno José Saramago, cozzanti come tonni in rete, il cui unico diritto garantito – sostenuto dalla quasi totalità delle forze di rappresentanza studentesca, prone prone prone (non vedo l’ora di prendermi la responsabilità di queste parole) a chi dall’alto, e dal mezzo, decide – è quello di svuotare le proprie tasche; la realtà dell’ateneo è la realtà dei ricercatori, sfruttati e sviliti, descritti dalle mai paghe linguemarcie come i figli dei baroni, e disarmati contro l’impossibilità di far valere le proprie competenze, il proprio lavoro, la propria incommensurabile volontà di diventare finalmente grandi, di crescere e far crescere l’Università.
In questo clima è diventato un Jan Palach moderno N, nella sua follia, nella sua sfida, nelle sue parole. Ma ora di lui non è rimasto altro che un bel funerale, una bella commemorazione, una bella targa a lui intitolata di fianco alla porta di una bella aula ristrutturata, e uno due tre quattro cinque tredici, tredici belle lettere incise sul marmo – o sull’ottone. Marmo – od ottone – , forse vale di più ora la vita di N. La metamorfosi di un N che era solo un N, un Nessuno di cui a Nessuno importava nulla, spiaccicato contro un pavimento insanguinato, ora schiacciato contro un pavimento verticale. Mi pare già di intravedere un nome di fianco al muro dell’Aula Magna di Lettere, un nome per niente familiare, forse qualche latinista di inizio secolo, o un parlamentare siciliano, una vittima della mafia forse. Leggo attentamente, N.O.R.M.A.N Z.A.R.C.O.N.E. Un nome che non dice niente alla memoria.
Un pensiero mi ha colpito in questi giorni intrisi di quell’attraente odore che è la puzza di benzina: l’idea che non esistano crisi – come ogni giorno ci fanno credere – , ma solo cambiamenti. Forse era un cambiamento quello che Norman cercava con quello che qualcuno ha definito un “atto dimostrativo”, ma la speranza viva è che non ci siano più vampe suicide in piazza San Venceslao. Jan Palach è distante, nel tempo e nello spazio, ma le torce di Praga si sono accese ancora. Si accendono ogni mattina che un uomo decide di rinunciare ai cristiani sacramenti in nome di una dignità che è certo di non poter riscattare nella vita terrena. Jan Palach è morto, ed anche Norman Zarcone. È inevitabile. L’evoluzione delle cose ci costringerà a puntare le torce fuori da noi stavolta, a far saggiare le fiamme a chi non le ha mai viste. A chi, seduto lontano dagli incendi che alimenta ogni giorno, pensa di dominare il fuoco che ha creato.