UN SILENZIO CHE ANNICHILISCE E NON È MAI FINITO

Il 31 ottobre 1980, la notte delle streghe, a Giarre, in provincia di Catania, Giorgio Agatino Giammona 25 anni, e Antonio Galatola, detto Toni, 15, vengono trovati morti nei campi fuori dall’abitato. Due colpi alla testa: un’esecuzione.

Non esiste una verità sola sulla loro morte, ma la versione più accreditata vuole che ad uccidere sia stato il nipote di Toni, tredicenne e quindi non imputabile. Ai carabinieri il ragazzino, sulle prime, disse di aver agito sotto richiesta – di più, sotto esplicita minaccia – proprio dei due assassinati.

Ne “Il silenzio dei giorni” (Ianieri edizioni), Rosa Maria Di Natale lascia i panni consueti della cronista – anche se da lì si muove – per dar forma a un romanzo che usa la libertà dell’invenzione per interrogarci su quanto di più reale possiamo domandarci: chi vogliamo essere.

La storia che il correttore di bozze Peppino Giunta racconta al suo caporedattore Riccardo Armeni in una notte altrettanto lunga e densa di pesi da lasciar andare non è quella di Giorgio e Toni, ma suona come: cosa sarebbe successo se.

Se Giarre avesse preso le sembianze di Giramonte Etneo, pendici dell’Etna, campi di arance e un’estate del 1972. Quella in cui Saverio Giunta potrebbe – forse – uscire dal perimetro stretto di ciò che conosce. E che è destinato, se non a governare, a vederglisi piegare davanti con deferenza.
Suo padre infatti è Michele Giunta, possidente e virile esempio di cosa un uomo dovrebbe essere, in quegli anni, per dirsi uomo.

Ciò che interessa a Di Natale e ciò che il Peppino fattosi uomo consegna al suo superiore nella notte di Milano di molti decenni più tardi, è il ritratto vivido e senza infingimenti di un tempo. E anche di un luogo, che ha però una geografia molto meno specifica di quanto ci piacerebbe immaginare mezzo secolo più tardi.

Un luogo in cui “il segreto non esisteva, meno ancora se le cose da tenere nascoste profumavano di calze di donna e portafogli di maschio”.  Dove è il matrimonio e la capacità di consumarlo a fare di te un essere umano a pieno titolo, la capacità di ignorarne l’esistenza pur di dar prova di virilità a far di te un maschio.

E maschile è e deve essere tutto lo sguardo sul reale: tutto e tutti devono rispondere alla sottomissione naturale di un padre padrone che non deve, non può, far allontanare nulla dal perimetro del proprio sguardo. La terra, naturalmente, e poi i figli. Tantomeno se per andare in città, nera e sulfurea molto al di là della pietra lavica, luogo in cui tutto è possibile e perciò tutto è male.

Luogo che sarebbe, per Saverio, lo spazio di un’altra possibile età adulta che però, per darsi, deve scontrarsi con leggi non scritte incancrenite nell’abitudine che nessuno sa o vuole lasciare andare. Nemmeno lo stesso Peppino, Peppino, simbolo di chi rifiuta quella possibilità e accetta di essere ciò che il suo contesto di riferimento ha deciso per lui.
Quando, però, quella possibilità tanto impellente smette di essere una teoria lontana per incarnarsi negli occhi bistrati e nella sfrontatezza di Matteo, il nipote del sarto, di chi l’altro mondo possibile fatto di viaggi al mare e abbracci schietti lo porta personalmente dentro il recinto chiuso di Giramonte, per Peppino si rompe un cordone ombelicale necessario.

Ma forse, più di quella della simbiosi col fratello, nutrita per definizione di un amore intriso d’odio e gelosia tanto quanto di orgoglio, è la rottura di queste certezze ad essere un tradimento, a farlo sentire privato di una parte di sé. E a indurlo a caricarsi la colpa di chi ha fatto tutto – e anche qualcosa di più – per non vederla sfuggire.
O forse per vendicarsi quando già tutto gli era scappato dalle mani.

La prosa elegante e mai ampollosa di Rosa Maria Di Natale cerca e da forma a un microcosmo simbolico di “rumori veri, risate e pianti veri. Voci vere, persino” dove la nomina, la nomea, è l’unica cosa che conta, le accuse si gridano in pubblico ma le onte si lavano in privato.

Di Natale svolge con cura, questo sì, il primo mestiere del cronista: mettersi in ascolto, tanto più necessario quanto più ci repelle quel che siamo chiamati a sentire. E traccia con vividezza uno scontro con la diversità che, più e prima che personale, è la percezione di chi si sente sradicato dalla propria zona di conforto, dalla propria nicchia ecologica, in ogni occasione in cui “i compaesani mi apparivano diversi, di una diversità difficile da decifrare anche per me, che pure ero uno di loro”.

I silenzi solidi come lava di Giramonte, le lezioni di vita per come deve essere vissuta, il mondo che è certo di conoscere, per Peppino sono una sicurezza, a cui tenere fede, in nome della quale continuare, anche da adulto, a negarsi il mare, a rifiutarsi un diverso orizzonte.

Ma credere che esista una sola verità è una scelta troppo facile. Così come è facile, oggi, sentir parlare di un puppu cu bullu (un frocio patentato, un insulto che oggi ha preso, per la comunità LGBT, i connotati della rivendicazione) come Matteo, come Giorgio e Toni, e considerare quel tempo e quel mondo distanti.

Non lo sono. Non solo perché l’omofobia è reale – strisciante e manifesta cinquant’anni più tardi, ma perché il nostro è ancora lo stesso vivere dei Peppino che imparano a stare al mondo quando improvvisamente si trovano a godere, per forza di inerzia, della libertà prima negata.
Solo quando si rompe la gabbia della realtà come ci è stata costruita intorno. Solo quando improvvisamente vengono catapultati lontano dallo sguardo di un patriarcato che non si sa concepire altro da se stesso.

E che anche quando non è violento annichilisce col silenzio, coi patti di rispetto e le confessioni sì, ma solo tardive. Con le promozioni punitive e le generose buonuscite. Ma che, in fondo, forse non ne hanno ancora la forza. Dalla storia di Giorgio e Toni e da quella prima ondata di ribellione e orgoglio sono nati il primo comitato Arcigay e poi il primo Pride.

Dalla storia di Saverio, Peppino e Matteo – in cui c’è spazio per tutto, la morte e la vita, l’orgoglio e la paura, emerge forse, cinquanta anni dopo, la restituzione plastica – al di là del tema dell’orientamento sessuale – di una strada di liberazione ancora in gran parte da percorrere, perché la luce oggi si vede di più.

Ma per quanti è ancora “impudica, troppo sfrontata”?

Dal Blog di Chiara Palumbo