E’ un po’ come entrare nella tana del lupo per Barbara Ababio. Entrarci e sperare di farla franca.
Penetrare dentro con caparbietà, convinzione, quasi nonchalance. Siamo a Porcìa, in provincia di Pordenone. Friuli Venezia Giulia. E questa “tana” è il sottobosco limaccioso e brulicante di pregiudizi, mentalità chiuse, ostracismo deviante verso il “diverso”. Lei è una dei candidati a sindaco del piccolo comune. Giovanissima. Donna. Nera. Voce squillante, la convinzione di poter davvero acciuffare dalle radici un sistema inveterato e poco propenso a fare a meno dei suoi capisaldi e delle sue poltrone, e stravolgerlo del tutto. Ma lei ci crede con una sincerità disarmante. Quindi va avanti. Ha origini ghanesi ma per Barbara il Ghana è un fazzoletto di terra tra il Togo e la Costa d’Avorio. Valli immense, umide di un clima tropicale poco clemente e un’economia che si arrabatta tra esportazioni e aiuti internazionali. Non c’è mai stata. Lo ha studiato nei libri di geografia. Come un qualsiasi italiano ed italiana, lei, si sente davvero. Nata a Palermo, cresciuta nel capoluogo siciliano sino ai dieci anni. Poi il radicale cambiamento. La madre non trova lavoro. Quindi, il viaggio alla volta del “nord delle speranze” insieme al fratello. Per ambientarsi la fatica è doppia: il nord rispecchia in parte un immaginario collettivo che lo lega all’industria, alla ricchezza, a un’economia che si schiude ai nuovi mercati e che strizza l’occhio alle collaborazioni d’oltre confine ma sa diventare anche la culla pericolosa e aberrante di focolai sciovinisti. Gli stessi che trasbordano in un provincialismo oscurantista. Che rifiutano una concezione di Italia e di italiani differente da quella sinora assimilata. Così Barbara si ritrova a dover fare i conti con il colore della sua pelle. E’ quella che molti spesso vedono, al di là del pensiero, al di là delle idee politiche, al di là della persona.
Tutto si riduce a un concetto vago e indistinto. Il nero: perché? E se le perplessità non bastano, se l’irritazione malcelata per una “naturalizzata” non sono sufficienti a rendere l’idea dell’ardimentosa gimkana che Barbara ha deciso di affrontare, parlano da sé i fatti di vita vissuta. “Quando sei piccola non puoi o non vuoi farci caso“, spiega la Ababio, “ti chiamano ‘negretta’, soprattutto i bambini, senza troppi peli sulla lingua notano e fanno notare che c’è qualcosa di ‘strano’ nel colore della tua pelle ma all’inizio non credi sia importante”. I problemi cominciano quando la bambina cresce, diventa consapevole delle proprie potenzialità e – sgomento dei più – aggredisce col sorriso sulle labbra la vecchia guardia delle istituzioni. Decide che è arrivata l’ora del rinnovamento. Che quell’arroccamento distorto delle vecchie generazioni agli snodi di potere è un retaggio vizioso che necessita di essere squarciato. “Non vogliamo negri in Italia” è una frase che va ben al di là del “politically incorrect”, trasuda xenofobia, riflette impietosamente una grettezza che è certo nozionismo ma non cultura, anche nelle sfere più “alte” di quelle caste sociali che ancora si ostinano a persistere. Eppure Barbara, questa frase, ha sentito rivolgerla al suo indirizzo parecchie volte. E quando non l’ha udita i fatti hanno spesso parlato al suo posto. ”
“Il mio accento è in tutto e per tutto italiano, così come il mio nome, quindi l’agente immobiliare non aveva immaginato al telefono che fossi nera. Poi all’incontro ha avuto un momento di incertezza e mi ha semplicemente detto che non mi avrebbe più fatto vedere la casa”. Poco consola che se lui ha avuto un “momento di incertezza” nel constatare che la bella Barbara è nera, molti altri lo hanno nel sapere che questo “momento di incertezza” c’è realmente stato. Ma a questo punto la strada è imboccata, fare dietrofront diventa ancora più svilente che proseguire, così la ventenne di origini ghanesi che in tutto e per tutto si sente italiana, decide di sfruttare il proprio “tallone di Achille” come punto di forza.
Il “nero” compare in ogni dove della sua campagna elettorale. si insinua in ogni discorso, ogni immagine, ogni manifesto. E’ un leitmotiv che accompagna questa indecente scalata imposta per il riconoscimento umano. Un elemento che rimane sullo sfondo ma non viene mai meno. Tranquillizzante. Consolatorio. Si trasforma nel “nero” che modella e definisce, che è in grado di dare forma al bianco e, quindi, trasformarlo in parola, concetto, significato. E’ il nero che regala contorni netti, che esige trasparenza. “Non significa solo toccare le corde più sensibili di quella parte di società che inizia ad avvicinarsi a temi come l’integrazione e lo scambio interraziale. Significa mostrare con i fatti che davvero ogni persona può offrire un input fondamentale alla crescita e al cambiamento”. Ecco, dunque, che il colore della pelle si sveste di quella sua accezione banalizzata, sovente strumentalizzata per far leva sui meccanismi buonisti e stereotipati della mediatizzazione.
Diventa volano di crescita mentale. L’integrazione non deve essere imposta come luogo comune, quasi per “moda”, deve essere consapevolmente recepita come potenzialità di scambio e di costruzione sociale. “E a questo giova anche una formazione professionale”, Barbara è inarrestabile, “una ricerca sulle “seconde generazioni”, quelle nate e cresciute in Italia ma con genitori provenienti da altri Paesi, ha rivelato che la loro maggioranza frequenta istituti tecnici o scuole professionali e non approda quasi mai a un tipo di formazione universitaria. Io stessa per quattro anni ho dovuto desistere da un progetto simile e solo di recente ho potuto iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza”. Armi e bagagli in spalla ha cominciato dalla piccola comunità della chiesa protestante evangelista. Dall’interpretazione in chiesa è passata alla mediazione, traducendo per inglesi e ghanesi negli uffici e per i servizi sociali. “Revisionare la legge Bossi-Fini e garantire la cittadinanza italiana alle ‘seconde generazioni’, senza che questa debba essere attesa come una grazia o un favore, sarebbe già un grande passo avanti“, afferma. Qualche domanda in più e Barbara svela un universo privato costellato di incertezze. Il dilemma del sentirsi definire “mezzo”. Mezzo italiano. Mezzo ghanese.
Un apolide che non può più tornare alle proprie radici ma che non riesce ad innestarsi in maniera definitiva a quelle nuove. “I ghanesi non mi riconoscono come una di loro. Non sono abbastanza ‘ghanese’. Nonostante sia nera mi esprimo con difficoltà nella loro lingua, ho modi di fare completamente differenti e anche la mia mentalità e lontana mille miglia dalla loro“. Eppure fino ai diciotto anni quella cittadinanza che avrebbe sigillato la sua appartenenza a una nazione che Barbara sente dentro molto più di altri italiani, le è stata negata. “Posso votare solo da un anno a questa parte perché ho ottenuto i documenti a giugno del 2013. Ero già impegnata nel sociale ma al contempo ne ero tenuta ai margini. Non potevo esprimere le mie idee all’interno di un’urna elettorale, tantomeno candidarmi”. Grande forza di volontà ma l’integrazione è anche aiuto della società, supporto da parte delle istituzioni, tutela. Peccato che dietro l’angolo ci sia l’accusa di un garantismo estremo. La stessa rivolta all’ex ministro Cecile Kyenge e che taccia quei pochi esponenti delle seconde generazioni giunti a posizioni politiche di rilievo di “razzismo inverso“. Ogni eccesso, nel suo essere tale è dannoso, e certo la convinzione di un popolo di essere penalizzato a favore del fratello visto ancora come ospite, pur avendo poco o nulla a che fare con il razzismo nella sua accezione più stretta, di certo non può giovare a una sana e reciproca accettazione. ” E’ una critica frequente. Io stessa sono stata indicata come l’artefice della rovina di quella piccola integrazione che quei poveri ‘fioi’ avevano raggiunto a fatica”, spiega Barbara, facendo sfoggio di un inaspettato intercalare tipicamente friulano che meglio di ogni altro discorso dipinge il suo allegro ecletticismo. Che in “medio stat” virtus è un saggio brocardo che deve accompagnare ogni aspetto della vita sociale e personale, così il limite invalicabile appena prospettatole, il timore di allontanarsi dai confini dell’equo e sconfinare nell’iniquo non la sfiora nemmeno. Per lei non c’è differenza tra bianco e nero: non puoi garantire qualcuno più di qualcun altro in base a una diversità che proprio non vedi! E se già questo è un primo step decisamente non facile da superare per una giovane donna che conta appena ventidue primavere al suo attivo.
Il secondo non è da meno. E, infatti, le contingenze politiche, la deflessione finanziaria, la sferzata delle economie data dalla cooptazione europea non hanno certo messo in buona luce le istituzioni. La crisi del governante si riflette in quella del governato che non trova validi punti di riferimento, naviga nelle acque profonde della sfiducia nella rappresentanza pubblica, non è più convinto che un leader politico piuttosto che un altro possa realmente fare la differenza. Un altro ostacolo che Barbara affronta con pragmatismo. “Piangersi addosso è inutile, anche la fuga verso altri Paesi non risolverà comunque il problema. Il nocciolo della questione è l’abitudine tutta italiana di lamentarsi per sentito dire. Ed è proprio per questo che ho intenzione di dimostrare che impegnarsi nei fatti è assolutamente imprescindibile”. Dipinge quasi un bipolarismo di intenzioni, per lei è solo un gioco di contrapposizioni tra “fare” e “non fare” e non ha alcuna intenzione di abbandonare all’inerzia altrui il sogno di conquistarsi coi denti un “piccolo pezzo d’Italia”, uno spazio in cui sentirsi in pace con se stessa. E di certo l’essere donna non l’aiuta. L’ennesimo ma non certo ultimo scoglio che dissesta il suo cammino. Se il colore della pelle la colloca nell’occhio del ciclone per via delle sue scelte unite al pregiudizio di rito che le accompagna, il diktat italiano secondo cui la donna in politica è spesso l’aberrante risultato del compiacimento dell’uomo al vertice di turno non è elemento agevolatore. “Al di là dei luoghi comuni per cui dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, è da dire che quello che più ci differenzia da loro e la prospettiva diametralmente opposta. Dobbiamo capire che è la volontà che fa l’obiettivo e non il contrario”. Un’abilità che – a sentirla parlare – di certo non ci manca. La donna è nata stratega, un’arguta Penelope che tesse la sua tela e la scioglie senza che ciò desti attenzioni. Lo fa privatamente, in famiglia, nelle relazioni sociali. Guida e monitora. Controlla. Indirizza. “Perché non dovremmo essere capaci di farlo anche in politica?”. E sulle “quote rosa” risponde battagliera: “Non abbiamo certo bisogno di un ‘contentino’, siamo decisionali, non rimandiamo, affidiamo il benessere di domani alla fatica di oggi. Perché non dovrebbe essere possibile acquisire credibilità semplicemente lottando sul campo? Equipaggiandoci delle stesse armi di cui si avvale il sesso forte?”. Un vulcano di vitalità di soli ventidue anni che sconta anche la giovane età. Che la cosa la scoraggi? Nemmeno per idea. La sua visione di politica è quella di un servizio reso dal cittadino alla sua comunità e per quanto le male lingue possano definirla “presunzione” o, al più, “eccessiva sicurezza di sé”, Barbara è convinta che questa sia la sua vocazione che iniziare prima o dopo ad adempierla non faccia alcuna differenza, che sin da subito sia importante costruire un proprio bagaglio di esperienze nell’ottica di un arricchimento a favore dell’intera comunità. E’ ancora una volta un problema di prospettiva, la stessa che finora ha dimostrato una ripulsa verso le nuove generazioni priva di un fondamento che non sia un ancoraggio obsoleto e ormai passato ad un retaggio culturale sin troppo tradizionalista. L’alta considerazione delle “anzianità” del paese si nasconde dietro a un presunto alone di rispettabilità ed esperienza.
La vecchia guardia depositaria di esperienza e ragionevolezza, in realtà cela un’oligarchia sempre più affamata e dà voce a una serrata gerontocratica che tutt’oggi raccoglie parecchi consensi. Di questo l’Ababio è consapevole.
Poi una domanda a bruciapelo. “Ti è rimasta nel cuore la Sicilia?“. Certo le vocali piene e la cadenza cantilenante rivelano i suoi primi dieci anni palermitani e lei stessa ammette che “sei una vera siciliana” è una nota bonaria che le è stata fatta parecchie volte. Ma il suo cruccio è che la Sicilia si stia facendo carico, allo stato attuale, di un problema che dovrebbe invece riguardare l’intera Europa. “Gli immigrati sfuggono alle loro terre per via della fame e della povertà. La mia stessa famiglia è protagonista di una storia analoga. Ma il loro obiettivo non è certo quello di rimanere in Sicilia, spesso e sovente nemmeno in Italia. Vorrebbero raggiungere la Francia, la Germania, l’Olanda. Se ci pensiamo attentamente li si costringe in campi comuni senza assicurare loro un futuro. Meglio sarebbe riconoscere loro sin da subito lo status di rifugiati e indirizzarli verso un pieno adeguamento alle civiltà dei paesi dove intendono trasferirsi. Così, invece, si infligge loro l’ennesima sofferenza dopo un già incerto ‘viaggio di morte’”.
Il tempo stringe e Barbara deve tornare ai suoi impegni. Un “in bocca al lupo” e il suo sorriso: “Spero di potere andare in Ghana un giorno e di poterlo fare con addosso la fascia tricolore. Per mia nonna sarebbe un’immensa soddisfazione e io dimostrerei che qualcosa può cambiare“.
(Sara Faraci)