1° Maggio, festa dei lavoratori. Un evento importante, ricordo delle conquiste sindacali dei lavoratori dalla fine dell’Ottocento in America ed Europa. Qui, a Palermo e provincia, è anche qualcosa in più. Il ricordo della Strage di Portella delle Ginestre del 1947, dello strettissimo legame in questa terra fra la lotta per le rivendicazioni salariali e l’impegno costante contro la mafia.
Oggi, qualche settimana dopo il tentativo del Governo di cancellare l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, questo giorno assume una forza in più, e in ogni piazza d’Italia si festeggia la ricorrenza dei morti di Chicago e dei lavori dell’Internazionale socialista, con un occhio alla situazione del paese, alle condizioni attuali dei lavoratori, alla crisi, ai milioni di cassintegrati, agli operai sui tetti e all’Asinara, alle morti bianche, ai suicidi frutto dello sfruttamento, ai precari (i cosiddetti “flessibili”), ai lavoratori in nero, alle famiglie che non ce la fanno ad arrivare alla terza settimana.
Una ricorrenza sentita a Palermo, e perciò ricordata. Ricordata anche in Piazza Verdi (di fronte all’immenso Teatro Massimo), piena zeppa di giovani, pronti a manifestare il proprio disagio, le proprie rivendicazioni, i propri diritti, il proprio obbligo a ricordare e ad inquadrare questa società, questo tempo, questa difficile situazione, oggi come ieri, per i lavoratori come per gli studenti, per gli onesti e per chi viene sfruttato dai padroni del 2010. Sono le 18:30, e un frastuono infernale riempie le orecchie del vecchio Centro Storico. Sono i ragazzi dei centri sociali, dallo storico Ex Carcere all’Ask 191, situato in viale Strasburgo, uno dei polmoni commerciali e “borghesi” (come direbbe qualcuno) della città; insieme a loro i movimenti studenteschi che nel 2009 manifestavano contro la Legge Gelmini, e che oggi protestano contro la crisi, che si riversa immancabilmente sugli anelli deboli della società, studenti e lavoratori. Tutto questo in un frastuono sprigionato da carri vibranti che inseriscono tutto il contesto in un clima da rave. Di certo non il modo in cui avrebbero festeggiato i braccianti di Evola sfruttati, manganellati e uccisi.
Accanto al rumore però c’è dell’altro. Un microfono, una voce che cerca di farsi ascoltare, una serie di stand, un numeroso gruppo di giovani. È la manifestazione voluta fortemente dai Comitati Solidali Antirazzisti di Palermo, che stanno dimostrando una notevole forza di coinvolgimento giovanile, dilagando sul territorio cittadino e avendo già trascinato diverse scuole palermitane, come i prestigiosi licei classici Umberto I e Vittorio Emanuele II. L’idea è quella di un 1° Maggio alternativo, Solidale e Antirazzista, rivolto a tendere la mano ai più deboli e più ricattati, come appaiono oggi i lavoratori immigrati. L’iniziativa accoglie l’appello nazionale del Coordinamento Stop Razzismo e offre “a tutte le persone solidali, le comunità di immigrati, le associazioni antirazziste, i gruppi di volontariato, le forze politiche e sindacali” di parteciparvi, secondo una piattaforma che prevede:
• Accoglienza e regolarizzazione per tutte e tutti;
• No al pacchetto sicurezza;
• Contro ogni forma di razzismo e di discriminazione;
• Contro la violenza nei confronti delle donne, degli omosessuali, delle diversità;
• Solidarietà tra lavoratori immigrati e italiani;
• Solidarietà con le lotte dei lavoratori contro gli attacchi padronali e governativi.
Del Comitato promotore dell’evento fanno parte associazioni conosciute dell’ambiente socialmente attivo palermitano, come la Casa delle Culture, il Circolo ARCI-Tavola Tonda, Human Rights Youth Organization ed Ubuntu. Tuttavia, dentro una piazza che per motivi logistici ed organizzativi vede l’assenza di molte delle diverse realtà promotrici dell’evento, domina il punto di vista dell’Assemblea Solidale Antirazzista, che riunisce i Comitati cittadini. Ed è una grande festa di civiltà e politica attiva, di impegno contro ogni razzismo, per un mondo più giusto e più umano; e un cerchio (figura di eguaglianza, e di assoluta compiutezza) di persone sedute, scandisce i momenti della piazza, in attesa di musica e spettacoli.
E lì, in disparte, c’era lui. Solo, spaesato, confuso dai rumori dei carri, indifferente alle parole della piazza, incomprensibili per un uomo che da un anno e otto mesi vive qui a Palermo, fuggito da una Costa d’Avorio in guerra, rifugiatosi presso la sempre a aperta casa di Biagio Conte. E non ha timore quando ci avviciniamo, sembra un po’ sorpreso, non riesce a capire bene cosa vogliamo da lui. Un secondo dopo però il ghiaccio si rompe, e lui si apre in un’interessante e utile discussione, e ci racconta la sua storia. Originario del Burkina Faso, la sua famiglia si sposta in Costa d’Avorio, paese confinante dell’Africa Occidentale, dove la popolazione vive con meno di 1,25 dollari al giorno. La famiglia di Ibrahim è ancora lì, lui invece è fuggito; fuggito a causa della guerra civile che insanguina il paese dal 2002, e che, nonostante la mediazione internazionale dell’ONU e una pace apparente del marzo 2007, appare ancora fortemente caratterizzata dal calpestamento dei diritti umani e della ricomparsa del fenomeno della schiavitù infantile, senza alcuna ipotesi tangibile di una soluzione e del ripristino della democrazia, troppo spesso (l’Africa tutta insegna) condizionata dalle potenti gerarchie militari. Lui è partito in aereo, direzione Italia; fortunato fra le migliaia di uomini e donne costretti alle onde dirompenti del Mediterraneo, allo sballottamento fra gli Stati europei che non li vogliono ed alla definitiva ”accoglienza”. Arriva a Palermo, senza strumenti linguistici ed economici, e cerca lavoro; un anno e mezzo dopo ancora niente. Non riesce a lavorare, mille porte chiuse in faccia. Non chiede d’altronde un lavoro in regola, ma la situazione non è diversa; non riesce a garantirsi un minimo sostentamento autonomo basato sul ricatto padronale, non riesce a trovare qualcuno pronto a sfruttarlo 12 ore al giorno per 20 euro. Vive grazie all’aiuto della comunità di Biagio Conte, che, come sempre, aiuta nell’ombra, senza rivendicazioni di spazio e di visibilità.
Oggi Ibrahim ha un altro problema però, ed è indispensabile che lo risolva. Si tratta del permesso di soggiorno, del suo rinnovo. Ed è per questo che, il prossimo 25 maggio, metterà i piedi su un treno che lo porterà a Roma, dove il documento non risulta così inarrivabile, e dove la questura non appare così inaccessibile come quella della nostra città. E pagherà cinquanta euro per farlo. Cinquanta euro che farebbero comodo a qualsiasi famiglia italiana, per esser chiari su quanto possano far comodo (se così si può dire) a lui. Andrà a Roma, e tornerà con il suo lasciapassare italiano; tornerà quaggiù, aspettando il prossimo anno, il prossimo treno, i prossimi cinquanta euro.
Ma Ibrahim è comunque abbastanza contento di essere qui, di essere fuggito dalla guerra, e di avere la possibilità di restare ancora, di poter continuare a bussare alle porte per un po’ di malpagato sfruttamento, un po’ come facevano qualche tempo fa’ i compatrioti siciliani alle prese con il sogno americano.
Gli chiediamo perché è lì in quella piazza. Casualmente, una passeggiata. Ed ha in mano un volantino della manifestazione. Dice che Palermo effettivamente è un po’ razzista, e che aveva ascoltato quello che dai microfoni si diceva. Ma lui era lì, e loro dall’altra parte. Loro autoreferenziali, lui solo. Loro a parlare di antirazzismo, lui a vivere il razzismo. Distanti una galassia l’uno dagli altri, lui impegnato a sopravvivere, a metà strada fra i «io non sono razzista, però» e i «il fare è importante, però».
Ed è il 1° Maggio. Ed oggi si parla di antirazzismo senza prendere in considerazione chi lo subisce. Più o meno come quando il PCI parlava di lotta di classe senza chiamare in causa gli operai