Questa è la storia di un testimone di giustizia. Lui è Gaetano Saffioti, imprenditore calabrese che si è ribellato alla ‘ndrangheta.
L’azienda “Saffioti e calcestruzzi terra”si trova alla periferia di Palmi. Dal 2002 però qualcosa è inevitabilmente cambiato. Ci sono degli elementi che catturano subito il nostro sguardo, quando in una giornata piovosa, decidiamo di andare a trovare questo grande uomo, accompagnati dall’associazione antimafie Rita Atria. I cancelli sono blindati. Tutta l’area è sorvegliata. Due uomini della guardia di finanza stazionano guardinghi. Qui Gaetano Saffioti e sua moglie ci accolgono con grande calore ma nello stesso tempo lui ci dice subito qualcosa che gela l’atmosfera: “Noi facciamo venti passi”. Quei venti passi sono lo spazio che separa l’azienda dalla loro abitazione. Uno spazio infinitamente limitato, in cui sono confinate le loro vite da quando Gaetano ha denunciato. Vite blindate, come gli infissi delle finestre da cui, affacciandosi, marito e moglie possono vedere solo la casa e l’azienda.
Parole che sicuramente ricordano il tragitto che divideva la casa di Peppino Impastato al boss Tano Badalamenti e che in maniera assai lapidaria racchiudono un mondo: quello di un uomo che si è trovato a convivere con la propria libertà personale e familiare violata. I toni quasi tragici sono subito smorzati dal grande senso di umorismo di questo grande omone calabrese che tra una battuta e l’altra ci ha fatto subito accomodare nel suo studio. L’orgoglio e l’amore per il proprio lavoro sono tali che su tutti i mobili dell’ufficio di Gaetano Saffioti campeggiano escavatrici giocattolo. A un certo punto ci chiede a bruciapelo “Volete vedere quando sono andato a Scommettiamo che?”. Con l’escavatrice, naturalmente. E sul suo iPad per qualche minuto abbiamo visto un uomo (con qualche anno in meno, qualche chilo in meno, ma con lo stesso amore per il suo lavoro) prendere tre olive con una forchetta attaccata alla pala dell’escavatore. Un’altra scommessa vinta nella vita di Gaetano Saffioti, insieme a quella per battere i suoi estorsori. La scrivania di Gaetano è piena di targhe che testimoniano l’impegno civile. Qualcuna recita così: “Chi denuncia non è lasciato solo”. Per l’imprenditore però uno dei gravi problemi è la disattenzione nei confronti della ‘ndrangheta. Le vicende di mafia sono sempre accompagnate dal silenzio dell’informazione e gli spazi sono occupati dalle vicende di Belen, Corona e le escort di Berlusconi. “Non è vero –dice-che le persone non si interessano a determinati problemi. Magari la collettività si interessa e vorrebbe saperne di più solo che nella nostra società è l’audience che conta”.L’imprenditore di Palmi continua il suo racconto ripercorrendo i momenti di grande difficoltà sul lavoro. Gli operai sono scappati via. Da sessantacinque sono scesi a cinque.
Ma ora il problema è di carattere diverso: ”In tanti lavori non mi vogliono non perché hanno paura delle ritorsioni. All’inizio forse era così; ma perché hanno paura che io denunci qualche situazione irregolare. Molte persone si celano dietro la convinzione che si è persona perbene solo perché non si è mafiosi, non si è assassini o ladri. La cosa più grave è autogiustificarsi per la propria condotta sbagliata. Quindi ad esempio si è evasori per colpa dello Stato che mette troppo tasse. Questo gesto e altri vanno a incidere nell’illegalità diffusa, e rappresentano anche un brutto esempio per i giovani che non hanno modelli che stanno dalla parte giusta. Questo è il passo che si dovrebbe fare, anche se non possiamo pensare che la situazione cambierà da un giorno all’altro”. La loro vita in venti passi, dunque, è un sacrificio per le generazioni future, ma non è una vita facile. Lo sa bene la moglie di Gaetano, a cui chiediamo se ha ricevuto solidarietà da parte dei concittadini.
La risposta è chiara e diretta: “Solidarietà? Ma quando mai?”. E ci racconta che ha dovuto cambiare tre volte parrucchiere da quando suo marito ha denunciato: “Dopo qualche mese mi viene puntualmente chiesto di non andare più al negozio per non creare problemi”. Parla a bassa voce, ma non le manda a dire la signora Saffioti. Non vuole apparire, ma sta sempre al fianco del marito. Poi chiediamo a Gaetano perché nel suo ufficio ci siano tre bandiere. Una dell’Europa, una dell’Italia con in mezzo quella della sua azienda: “La mia azienda ha questi modelli di riferimento. Io ho costruito tutto dal nulla. Mio padre però mi ha lasciato il buon nome. Era una persona onesta e corretta. Io ho avuto credito grazie a lui e desidero a mia volta lasciare la strada spianata per mio figlio. Credo che non avrei potuto agire diversamente dal non sottostare al regime del pizzo” Chiudiamo l’incontro con l’imprenditore coraggioso chiedendo se si sente più libero oggi o prima. La risposta non lascia margini di dubbio: “Assolutamente oggi. Perché voi non avete idea di cosa significhi essere portato al cospetto di un mafioso latitante ricercato dalle forze dell’ordine, in piena notte, tra uliveti e campagne con il rischio di non tornare più a casa, o vedere incendiato il mezzo, o sentire il potentato di turno dettare legge sui lavori che si possono o non possono fare. Il problema non è il pagamento del pizzo a Natale o santo Stefano, ma la vessazione continua tutti i giorni”. Da quel giorno della ribellione sono passati undici anni. Quando gli estorsori sono finiti alle sbarre, quando la moglie di Gaetano guardando il telegiornale ha scoperto insieme a tutta Italia che suo marito ha sfidato la mano nera del racket.
Oggi, la famiglia Saffioti vive in venti passi. Eppure è libera.