Contatto Ivan Vadori su facebook, so che verrà a Cinisi a presentare questo suo lavoro, un docufilm su Peppino Impastato. Vengo immediatamente coinvolta dal suo entusiasmo trascinante, fin dalle prime battute dei nostri messaggi. Ho quasi l’impressione che da un momento all’altro debba saltarmi fuori dalla tastiera o dallo schermo del computer. Non vedo l’ora di conoscerlo, questo “ragazzo” che conosce Cinisi e la storia di Peppino. Si vede chiaramente che gli scorre nelle vene, molto più che a molti siciliani. Ed è per questo che mi incuriosisce. Quella che segue è la nostra intervista, realizzata la mattina della prima. La sera torno a Cinisi per vedere la proiezione. Vedo la sua emozione, la sua trepidazione: Ivan va su e giù nervosamente, parla con qualcuno, poi torna a passeggiare nell’attesa che venga proiettata la sua opera. Il film è pregevole, curato nell’insieme; le musiche e la fotografia sono particolarmente belle, come anche l’operazione di alleggerimento grazie all’inserimento della fiction. Dopo la proiezione è seguito un dibattito da cui mi sarei forse aspettata un maggiore approfondimento sul giornalismo d’inchiesta: i “numeri” umani c’erano tutti. Ma a portare dentro un po’ di poesia ci pensa Luisa Impastato, nipote di Peppino e di Felicia e presidente di Casa Memoria. E’ toccato a lei raccogliere il testimone che sua nonna, morendo, le ha consegnato. Ha il compito di mantenere viva e di tramandare la sua storia, che è la storia di una nazione: memoria personale e memoria collettiva insieme.
Friuli e Sicilia: due regioni italiane ma anche due universi divisi da diversità siderali. Cosa spinge un giornalista friulano a occuparsi di una vicenda di mafia come quella di Impastato?
Tutto nasce due o tre anni prima del film “I Cento Passi”. Una sera sono andato a teatro, di cui sono appassionato. C’era questo monologo con quest’attore che parlava del caso Moro e di Peppino Impastato. Sul caso Moro conoscevo molto, è una storia importate della politica italiana. In questo monologo l’attore parlava di Moro e di Impastato intrecciando Roma e Cinisi. Ho faticato a capire cosa c’entrassero le due cose perchè mi mancava un pezzo di storia, pensavo che i due casi fossero collegati. Dopo un po’ di tempo mi capita di seguire uno speciale su Rai 2 che parlava proprio del caso Impastato. L’ho seguito attentamente; da lì a poco uscì il film I Cento Passi e fu grazie a questo film che mi sono innamorato della sua figura, soprattutto perchè Peppino aveva capito che cos’era la mafia, era uno che la mafia l’ha combattuta avendocela in casa, l’ha lottata dal di dentro. Lì per lì mi è venuto di paragonare la vicenda di Impastato a quella di Anna Polikosvskaja, una figura bellissima del giornalismo, perchè anche lei come Peppino ha dato la vita per i suoi ideali, la loro è una storia di libertà.
Siamo nel 2006, io studiavo ingegneria e volevo venire in Sicilia. Ci arrivo carico di pregiudizi . Vado a Messina per un campo scout e da lì prendo un treno per Palermo per portare dei fiori a Falcone e Borsellino e, visto che mi trovavo, penso di andare a Cinisi. Ho la fortuna di trovare subito Giovanni (Impastato) al telefono, mi dice: “vieni, ti ospito qui”.
Ho portato i fiori sia Falcone che a Borsellino e penso che tanti siciliani non lo hanno ancora fatto e forse non lo faranno mai. Quindi arrivo a Cinisi: l’ho girata due giorni interi con Giovanni e la cosa che mi ha fatto tristezza più di tutte è che, rispetto al film, le cose non erano e non sono cambiate. Mi è venuto spontaneo dire a Giovanni che l’unico elemento di cambiamento erano le macchine. E’ così che è nato un legame con Cinisi e con Giovanni e da quella volta io piango tutte le volte: prima di venire in Sicilia e prima di andarmene.
Quell’ottobre del 2006 mi ha cambiato la vita. Io facevo ingegneria ma ho sempre avuto l’ambizione di fare lo scrittore. Ho iniziato col Messaggero Veneto occupandomi di sport, poi pian piano la mia carriera si è evoluta. L’anno dopo ho portato Giovanni a Udine e a Pordenone per delle conferenze. L’ho portato sulla tomba di Pasolini ed è stato davvero emozionante per me. Ho detto: “ok, se Peppino e tanti siciliani quotidianamente danno la loro vita, io cosa faccio nel mio piccolo paese?” Mi sono sentito inferiore, ecco. Ho sentito una forza troppo a lungo rinchiusa. “Ok, anch’io devo fare qualcosa nella mia vita”, mi sono detto. E da lì è iniziata la mia carriera giornalistica avendo come modelli Peppino e Giancarlo Siani. Ma una cosa mi preme dire fra le altre: Peppino non era un giornalista, non era un reporter: era tutto questo insieme. Era un intellettuale, leggeva Pasolini, il più grande intellettuale del nostro tempo. Ma la grandezza di Impastato sta nel fatto che tutti gli altri giornalisti uccisi, come Fava o Siani, ma anche gli stessi Falcone, Borsellino eccetera in fondo lo facevano per professione. Peppino, invece, solo perchè ci credeva. Ho lasciato ingegneria e mi sono laureato l’anno scorso in scienze multimediali con una tesi su Peppino e Radio Aut. La radio, che riesce a passare sopra ogni calamità, vedi l’Aquila per esempio o Fukushima. Quindi vado a cercarmi gli archivi di Radio Aut e tutte le inchieste. Proprio mentre mi stavo laureando viene fuori la storia di questo processo sulla strage di Alcamo e della misteriosa sparizione di questa “carpetta”, un caso assimilabile a quello dell’agenda rossa di Borsellino. [Il riferimento è al duplice omicidio di due carabinieri in servizio alla casermetta di Alcamo Marina nel gennaio del 1976, una storia di depistaggi, mafia, gladio e ingiusta detenzione. Impastato era probabilmente a conoscenza di elementi che andavano nella giusta direzione, tanto da indurlo a denunciare pubblicamente il depistaggio attraverso la radio. La cartellina in suo possesso è misteriosamente scomparsa, n.d.r.]. Poi ho fatto una tesi di laurea con un cortometraggio; ho pensato che sarebbe finita dentro qualche archivio universitario e ciao. No – mi sono detto – devo ampliare e approfondire la faccenda. Così ho passato un anno a studiare Peppino.
La nostra storia repubblicana è costellata di eventi misteriosi, di sparizioni e depistaggi: da piazza Fontana alla sparizione dell’agenda rossa di Borsellino e tanto altro. Ma sempre si ha l’impressione che, anche quando si riesce ad arrivare ai processi, poi c’è un livello che non viene mai superato, che rimane sotto traccia?
Il nostro è un paese fatto di depistaggi, di cose sporche e sotterrate. Si pensi al caso di Alcamo Marina in cui sono morti due carabinieri si, ma il depistaggio è stato fatto da altri carabinieri e questo ci deve fare molto pensare. Lucarelli, durante l’intervista, mi ha detto: “arriva un momento in cui la verità arriva a galla. Però tanti di questi sono morti”. Non dobbiamo aspettare tutti questi anni, quando le persone coinvolte sono sotto terra. Purtroppo l’Italia è fatta di queste storie e Peppino odiava queste storie; lui ha dato la vita affinchè la verità venisse fuori, per denunciare il malaffare di cui era circondato e ha avuto il coraggio di portarla a galla, la verità. Peppino poi aveva un’arma in più che era l’ironia. Lui conduceva un giornalismo partecipativo, l’ho definito così, perchè se noi pensiamo ai nostri giornalisti d’inchiesta oggi, quindi se pensiamo a un Saviano per esempio o Lirio Abbate, tutte bellissime persone e belle penne, comunque non sono in grado di farci sorridere, non ci coinvolgono, non fanno vibrare le corde dentro di noi. Peppino riusciva a fare questo: giornalismo d’inchiesta toccando le corde della nostra sensibilità. Le persone si sentivano coinvolte nelle cose che lui raccontava, riusciva a toccare il loro quotidiano. Lui è stato il tramite tra l’inchiesta e le persone. Ed è un po’ quello che pensa Pietro, il protagonista del mio film, che entra in conflitto con la sua ragazza cercando di fargli capire chi era Peppino e di come fosse importante tutto quello che ci ha lasciato, di quanto il malaffare incida nel vissuto di ciascuno di noi. Penso che Peppino non bisognerebbe considerarlo un patrimonio solo di Cinisi o della Sicilia: Peppino è patrimonio nazionale. E’ una persona che aveva capito le cose tanto tempo prima e quindi lui le denunciava con quello strumento meraviglioso che è la radio, un mezzo che entra nelle case di tutti: non è il giornale che sei costretto a comprare, non è la tv che è deviata. È un mezzo pubblico ed economico, di tutti.
Come è stato realizzato il tuo film?
Certo non ti corrono dietro per finanziare questo genere di film! Al contrario, sei tu che devi inseguire le persone. Io volevo fare un lavoro che fosse indipendente. Volevo la libertà assoluta di come realizzare le interviste, di come costruire la sceneggiatura della fiction, un inserimento necessario secondo me per avvicinare le persone. Il rischio sarebbe stato quello di mettere in fila una serie di interviste stile Report, un po’ noiose e poco divulgabili. Ho seguito un metodo molto diffuso in America, quello del crow funding. Sottoponi il tuo progetto dal basso che può essere sostenuto pagando una quota. Sono partito da internet, paradossalmente era lo stesso strumento che utilizzava Impastato senza avere internet. In cambio ho messo nei titoli di coda i nomi di tutti coloro hanno sostenuto la produzione e garantendo loro una copia del film. Sono anche andato in giro per l’Italia a presentare il progetto mentre contestualmente lavoravo al film. E mentre giravo i posti per le mie interviste andavo via via conoscendo persone molto legate alla figura di Peppino; ho conosciuto anche persone che non lo conoscevano e che, grazie a questo mio giro, lo hanno conosciuto e apprezzato.
Qual è la cosa più bella che ti ha lasciato questo lavoro?
Proprio questa: l’avere conosciuto tanta gente bellissima, gente impegnata nel sociale. Quello che dico sempre nelle interviste è che Peppino unisce le persone belle, anche adesso che sono passati 35 anni dalla sua morte. Peppino vive dentro di me, in quello che io faccio. Poi sai, poco tempo fa mi hanno invitato a presentare una mostra fotografica del centro di documentazione Impastato di Anna Puglisi e Umberto Santino. In quell’occasione ho detto che le commemorazioni sono un momento senz’altro importante, ma è altrettanto importante che assieme a questo noi portiamo il cambiamento dentro la nostra vita. Perchè la mafia è sempre un problema culturale che è sostanzialmente un problema di arroganza, sia essa friulana o siciliana. E noi dobbiamo cambiare ogni volta che facciamo queste commemorazioni, altrimenti non servono a niente.
Chi sono stati i tuoi collaboratori?
La realizzazione di questo film è avvenuta grazie alla collaborazione di circa venticinque persone, tutti professionisti e professionali e sono stati i primi ad essere coinvolti nel progetto. Cioè erano tutte persone che hanno condiviso con me non solo il progetto come puro compito di lavoro: io ho voluto attorno a me persone che sposassero il progetto. La prima cosa che chiedevo loro era il coinvolgimento come elemento essenziale per lavorare. A partire dalle sceneggiatrici, che sono Francesca Benvenuto e Marta Daneluzzi: due giornaliste bravissime e impegnate ai massimi livelli in quest’opera. Tieni conto che per tre quarti i miei collaboratori sono friulani, quindi persone che hanno conosciuto Peppino attraverso il film. Sono persone che hanno creduto con me in questo progetto. Anche gli attori, Andrea Tich è un croato, Natalie Norma Fella è di Udine, sono stati coinvolti e anche qui Peppino ha unito.
Approfitto della presenza di Marta Daneluzzi, una delle due sceneggiatrici, e le chiedo:
Qual è stata la difficoltà maggiore nella scrivere questa sceneggiatura?
Sai, questa per me è stata la prima volta in cui mi sono occupata di scrittura per il cinema, a differenza di Francesca [Benvenuto] che era più ferrata in questo ambito. Quindi è stata una di quelle cose in cui mi sono lanciata per entusiasmo, il progetto mi piaceva. Ho una stima immensa per Ivan che ha questa grossa capacità di coinvolgere e contagiare tante persone. Ecco, se c’è un filo rosso che unisce Ivan a Peppino è proprio questa loro capacità di coinvolgere, di attirare attorno a sé e ai loro progetti tanta gente. Ed è stata la scoperta di un mondo per me, legato a un nuovo modo di scrivere: ho imparato e ho contribuito. E’ stato un dono, un dono che mi è arrivato. Poi io ho una passione per la radio, vengo da quel mondo. Nello specifico, si pensa che la mafia sia un fatto distante da noi friulani, che non appartenga al nostro mondo: nell’immaginario viene rappresentata ancora con lupara e coppola, ma la mafia entra nel nostro quotidiano. Questo lavoro ha rafforzato in me ancora di più l’idea della responsabilità individuale, della coscienza di ciascuno di noi nel quotidiano, nel rispettare il bene pubblico.