Uno sguardo dall’interno

«La cosa più importante è comprendere che la stola ed il grembiule sono come l’altezza e la lunghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo» (Don Tonino Bello)

Ho scelto di iniziare così questo articolo, perché è un passo, questo, che mi sollecita e mi ricorda chi dovrei essere e quanto, in realtà, sono lontano ancora da questo essere.

Penso che sia perdurante e naturale, per un uomo credente, specialmente oggi, la dimensione domestica e parrocchiale di Chiesa, non quella istituzionale, gerarchica, lontana, fredda, non umana.

Ma cosa vuol dire essere “uomini e donne di Chiesa”?

Già, è una domanda che oggi mi sono posto.

Significa essere “amanti” di essa, sapersi e volersi spendere per essa, senza misura – non è parola grossa, consentitemi; non rigettate l’idea di continuare a leggere, e capirete il senso.-

Sempre don Tonino, descrive così la Chiesa: con in mano il lezionario (Parola annunciata), con la casula (Parola celebrata), e ben cinto ai fianchi un grembiule (Parola testimoniata).

Tutte queste tre realtà devono essere presenti, ma, ahimè, viviamo ed assistiamo a crasi e spaccature profonde, ferite e lacerazioni che non ci mostrano questa realtà.

Mi vorrei soffermare su quella che ritengo sia troppo messa di lato, l’ultima.

Leggendo e considerando gli accadimenti degli ultimi tempi, mi sorge ancora più forte il bisogno di una Chiesa “estroversa”, fatta di persone che interagiscono, e che sbagliano anche; che non solo non scomunica il mondo e non si ritiene alternativa ad esso, ma che si pone al servizio del mondo e a questo chiede quello che potrei definire “l’ordine del giorno” della propria azione.

«… la chiesa … passa attraverso la stazione del mondo, lo aggancia e lo spinge in direzione “trinitaria”, … oceano di carità in cui è dolcissimo naufragare. Una chiesa senza mondo non ha significato.

“Con chi sei venuta?” Chiederà il Signore alla chiesa. “Sei venuta da sola? Torna indietro! Io ti ho cercata perché tu agganciassi il mondo e me lo portassi.”»

Riflettiamo su queste parole e notiamo come sia più facile e semplice trincerarsi dietro ideologie retrograde di “societas perfecta”, dietro mentalità di una chiesa che si “adorna” di cinture di sicurezza per arrivare incontaminata, prescelta, eletta, all’ultima stazione.

Questo non lo ritengo giusto!

È il frutto di una facile teologia distorta, che ancora non ha compreso il senso e si ripiega sulla dicotomica distinzione del potere “spirituale” e potere “temporale”.

Ancora celebriamo solenni pontificali dentro i nostri templi e lasciamo dietro, meglio fuori, il mondo con i suoi problemi, i suoi interrogativi.

Come sarebbe bello, direbbe S. Francesco, aprire le porte delle nostre chiese al mondo e celebrare nella grande cattedrale di Dio, ossia il creato!

Invece, anche nelle nostre modalità celebrative, preferiamo chiuderci “ad intra” e lasciare che l’altro, che il diverso, non senta, non ascolti, non veda, anzi non disturbi.

Direbbe don Tonino: «sarebbe una gran bella cosa che il vescovo aprisse le porte della sua cattedrale e con tutto il popolo di Dio uscisse in piazza per portare questo Cristo fuori».

Ritengo questo l’ardore nuovo per un’evangelizzazione tanto reclamata in questo ultimo tempo da tutti i vescovi.

Ma non si possono redigere solo documenti che spieghino e curino modalità da “scrivania”. Si dovrebbe agire proprio come il Signore fece ai suoi tempi, e come movimenti -vedi Francesco d’Assisi- riproposero: scendere in strada e fermarsi con la gente; avere contatto con loro, parlare alla pari, essere sullo stesso piano.

Altra cosa che mi preme sottolineare, in questo momento, è la non consapevolezza che la Chiesa ha;  non è vero che lei detiene l’intera e sola verità, né tutta la santità; i germi dello Spirito, sono ovunque, diceva un padre della chiesa di nome Girolamo.

Mi vergogna fortemente, entrando in una parrocchia, leggere gli “orari di ricevimento” di un parroco, come se un padre, se mio padre, a casa, mi ricevesse solo in determinati momenti.

Dobbiamo ritornare sui tornanti della prassi familiare e domestica; scendere dalle alte vette – splendide senza dubbio – delle dichiarazioni di principi, sino a valle; camminare con la gente e fra la gente, anche quella di fede diversa; farci carico di tutte le sofferenze del mondo, senza nulla chiedere a chi riceve il nostro aiuto.

“Una chiesa con il mondo e per il mondo”, sono ancora parole di questo profeta del nostro tempo, in “cammino nella storia in condizioni di esodo, dunque metaforicamente assimilabile alla tenda, tipica abitazione dell’itineranza”.

Abbiamo perso questa immagine. Cerchiamo sempre e solo le comodità più esagerate. Come possiamo accogliere il povero, che viene nei nostri locali parrocchiali, se, dopo aver superato il primo grande ostacolo dell’orario di ricevimento – come se per soddisfare la propria fame, il proprio bisogno primario, dobbiamo attendere l’orario giusto ed il momento giusto!-,  ci ritroviamo a lasciarlo sulla soglia della porta, perché altrimenti “sporca” i luoghi?!?

Vedo sempre più parrocchie fatte per auto costruirsi e auto completarsi, ma non per andare. Nascono “cenacoli” e “club” – li chiamo così; forse è l’espressione migliore e più delicata -, ma non si scende più in strada.

Quanto si conosce il proprio territorio parrocchiale realmente?

Si visitano le famiglie non per rito, ma per necessità viva?

Il parroco gira per le vie? Lo si incontra?

Peggio, quando le nostre comunità sono solo dispensari di celebrazioni e di sacramenti.

I nostri templi continuano ad essere luoghi di ritrovo per i soliti e ci si chiude dentro, invece di aprirsi fuori.

La parrocchia l’ho sempre vista non come il luogo dove i problemi dell’esistenza si stemperano, si omettono, o si addormentano, o si mettono tra parentesi. Essa è, invece il “quartier generale” dove si elaborano i progetti per una vita migliore, dove la solidarietà si sperimenta in termini reali, concreti, effettivi non secondo la “logica del campanile” – leggo spesso: “la caritas parrocchiale distribuisce i viveri solo ai residenti nel territorio”!-, ma pronta a pagare il prezzo di persona per ogni promozione umana.

«La parrocchia deve essere, perciò, il luogo pericoloso dove si fa memoria eversiva della Parola di Dio».

Le nostre parrocchie sono ormai abituate ad indire veglie, a vegliare…. Ma è giunto il momento di SVEGLIARE!

Sì, svegliare la gente dall’appiattimento spirituale, culturale sociale, rassegnati al fatto che nulla potrà mai cambiare.

Bisogna destare la gente da questo torpore in cui è ormai caduta, complice un sistema istituzionale, al quale fa comodo per personali tornaconti. Abitudini sonnolenti, da compiacimenti spesso solo intimistici, saturi di ripetitività rituali  e sordi.

Eppure, dovremmo essere chiamati ad essere attori di questa storia, attraverso scelte concrete di ogni giorno secondo una logica, quella delle beatitudini, e non secondo i criteri del tornaconto.

“Arrotolare la tenda e ripartire verso i traguardi che il Signore di volta in volta ci indicherà”. Questo era l’augurio del vescovo di Molfetta per i suoi fedeli.

La chiesa, allora, non come comodo luogo per sonnecchiare, ma come esplosivo laboratorio che, dal suo interno, elabora progetti di cammino, traccia mappe del nostro peregrinare alla luce di una Parola che è per noi.

Mettiamoci in cammino.

Apriamo le porte di questi luoghi.

Disponiamoci a scendere per strada, ad incontrare l’altro il diverso.

Possiamo soltanto crescere, possiamo soltanto ammodernare il nostro modo di fare, per essere sempre più cittadini di questo già futuro, dove non esistono più le barriere della differenza, ma la ricchezza molteplice della diversità.