di Giulia Carmen Fasolo
Una storia ricca di coraggio e passione civile quella di Vera Pegna, una militante del PCI che nel 1962, giovanissima, si ritrovò a Caccamo, sfidando la mafia. A quel tempo, il paese in provincia di Palermo era sotto l’egemonia mafiosa di don peppino panzeca. Con il suo arrivo, Pegna manifestò il suo dissenso e la sua non collusione fin dai primi gesti: una volta, infatti, ebbe l’ardore di sedersi sulla poltrona riservata in consiglio comunale al già citato boss.
La sua esperienza, purtroppo poco conosciuta e poco raccontata, è stata dalla stessa protagonista ripresa e narrata nel libro Tempo di lupi e di comunisti – La storia mitica della ragazza che sfidò la mafia, che l’editore Il Saggiatore ha deciso di ristampare.
Il nostro giornale ha deciso di contattare Vera Pegna per un’intervista telefonica dopo un documentario andato in onda per Rai Storia.
Le sue parole: “Io non sapevo cos’era la mafia. Quando sono arrivata a Caccamo e i compagni mi hanno spiegato subito cosa era in grado di fare, allora ho incominciato a capire dov’ero e quello che mi aspettava”. Forse negli anni ‘60 la mafia era più riconoscibile, attraverso delle azioni ben precise. Oggi verrebbe riconosciuta allo stesso modo oppure ha perso le “tradizionali” connotazioni?
Innanzitutto quando si parla di mafia, credo che sia necessario chiarire se si parla della struttura di potere della mafia, della cosiddetta cupola, delle sue diramazioni in tutta Italia o all’estero rispetto ad allora e degli scopi che sono mutati. Non si tratta più di dividere il grano in campagna, ma ora si tratta di droga, finanza… Si tratta, da parte della mafia, di portare la corruzione ovunque può. Questa è la rovina del paese sulla quale la mafia prospera. Bisogna quindi sapere se si intende parlare dell’organizzazione oppure – e io sarei più propensa per questa seconda cosa – a parlare della cultura mafiosa diffusissima che rende possibile poi alla mafia, cupola e organiz
zazione, di agire. Caccamo è un caso particolare, perché anche adesso, dopo quasi 60 anni da quando ci sono stata io, anche adesso non si può parlare di don Peppino Panzeca, il capo mafia di allora… Vi è subito silenzio, scappano. Sono pochi quelli disposti a farlo. Abbassano la voce, si guardano intorno, è incredibile…
Adesso, tornando insieme alla troupe di Rai Storia per preparare questo documentario, ho avuto avuto poco a che fare con i giovani, quindi non voglio dire come la pensano i giovani di Caccamo. Quelli più anziani mi sono sembrati così sfuggenti. Con questo voglio dire che è rimasta l’idea che di mafia è meglio non parlare. E’ meglio non parlarne perché chi vuole farlo è accusato di infangare la reputazione del paese.
Ciò avviene in molti luoghi: a Barcellona Pozzo di Gotto, a Messina, in molti comuni siciliani e non solo…
Sì, certo, la mafia è uguale dappertutto. A Caccamo è esasperata, perché rimane un gruppo di potere ben alimentata dalla chiesa locale. Dicono che il nuovo arcivescovo sia una persona perbene, sono felice di crederci, ma vi è un gruppo di potere che difende a ogni costo la memoria della vecchia mafia, al punto che c’è una connivenza tra quel poco, ma encomiabile gruppo di antimafia… c’è un sindaco molto chiacchierato, ma a me questo non riguarda, a me riguarda soltanto quello che poi si riferisce alla mafia. Dicevo, questo sindaco ha fatto alcuni atti precisi antimafia. Ha tirato fuori Balcone e Borsellino, c’era una delibera vecchia di 20 anni, che non era mai stata attuata, che diceva di intitolare delle strade a Falcone e Borsellino. Lui ha fatto una serie di cose e quindi sul territorio oggi i nomi delle vittime della mafia ci sono. Due nomi delle strade, il nome dell’aula del consiglio comunale intitolata a GEraci un cippo a un sindacalista Filippo Intili ucciso dalla mafia, allo stesso tempo c’è il liceo comunale intitolato al vecchio cervello della mafia mons. Panzeca. C’è un bel bronzo che è stato benedetto qualche anno fa dall’allora arcivescovo di Palermo. Ecco questa connivenza di mafia e antimafia è resa possibile dalla cultura mafiosa che esiste ancora. E chi vuole fare antimafia come questo sindaco è isolato. Insomma, è estremamente difficile. Lui ha fatto costituire parte civile il comune in processi che riguardavano mafiosi, ha dovuto farlo con una sola delibera di giunta perché il consiglio comunale si è rifiutato non ha ratificato questa delibera di giunta. Voglio dire un intero consiglio comunale…
La sua battaglia personale non è stata una chimera del tempo. Lei ha continuato, infatti, a dare seguito all’impegno civile che ha contraddistinto la sua giovinezza. Ci indica il passaggio dal quel tempo a quello di oggi? Cosa è avvenuto e come si sono trasformate le sue battaglie?
Il mio percorso è partito d
a Caccamo all’interno del PCI, poi è arrivato a Milano… Quello che ha assegnato il mio percorso politico e di vita è stata la scelta dell’intransigenza, possibilmente coniugata con la mitezza. Non sono una persona che si arrabbia, cerco di capire gli altri. Però, sui problemi di fondo, corruzione e mafia, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, su come viene trattata la questione dell’immigrazione, lì vale solo l’intransigenza. Non c’è spazio per fare compromessi quando l’essere umano viene privato dei suoi diritti.
Dopo Caccamo, Milano, le battaglie all’interno del PCI e della sinistra, ho seguito la questione del Vietnam, del Medio Oriente e della Palestina, questione di cui mi occupo tutt’ora.
Oggi il sindacato sembra aver perso le sembianze di un tempo, quando era meno burocrate e più vicino alla cittadinanza. Secondo lei è davvero cambiato? Se sì, come?
Non ho mai avuto a che fare con il sindacato. A Caccamo magari sì, perché era una realtà particolare dove vi era il segretario della CAmera di Lavoro e del PCI insieme che scambiava le tessere, faceva tessere di qua e di là, come gli andava, una persona ambigua che davanti al mio modo frontale di attaccare la mafia diceva ai compagni l’avversario va rispettato. Vera esagera. Ora quando l’avversario è la mafia, l’avversario non va rispettato ma combattuto. Questo intendo per intransigenza.
Penso a quando lei arrivò a Caccamo: donna bellissima, autonoma e munita di macchina, impavida tanto da sedersi sulla poltrona di Don Peppino. Rispetto alle battaglie delle donne, secondo lei, si è perso qualcosa? Se sì, quanto?
la donna al potere viene vista quasi come un atto di offesa a un sistema patriarcale e maschilista che da noi ancora insiste sui nostri territori. Maria Teresa Collica, il mandato è durato pochissimo, è stata osteggiata, derisa, verbalmente “violentata”, rispetto al fatto che volesse occupare un posto che normalmente per una certa mentalità è occupabile da un uomo.
Io ero una persona molto anomala, anche come donna. Ero molto diversa dalle donne dei compagni. Ero molto diversa: ero borghese e colta, che era lì per un ideale. Una cosa fuori da quel mondo. Completamente fuori da quel mondo. E poi c’era il fatto che il mio modo di fare molto diretto e mite non era criticabile, stavo molto attenta a come vestivo, sempre in modo modesto. Le dico una cosa buffa: vestivo in modo molto modesto, però ero abituata in estate a mettere dei sandali con le dita di fuori. Ecco, lì non si usava. Non me ne sono accorta mentre ero lì. Ma quando sono ritornata 50 anni dopo, un uomo che aveva forse 50-60 anni, mi disse: “io me la ricordo bene, mi ricordo dei suoi piedi”. Gli risposi: “come dei miei piedi?”. “Sì, perché era la sola persona che aveva i sandali”. Vede? Ero anomala in tutto e per tutto. Io toccavo le persone, davo pacche sulle spalle ai miei compagni, davo la mano forte, guardavo le persone negli occhi quando mi si presentava una persona dicevo “piacere” guardando negli occhi e stringendo la mano.
Sono tante piccole cose che mi rendevano diversa, ma difficilmente criticabile. Vedevano, insomma, che ero una persona seria, anche gli avversari. Il sindaco mi chiamava la matrigna esotica. Ecco, come dire “una cosa che non ci appartiene”.
Prima di congedarci e salutarla, Vera Pegna ha voluto aggiungere un altro punto per lei davvero fondamentale: “è stato presentato dal procuratore nazionale antimafia. Per me questa presentazione, a proposito del fatto che sono stata dimenticata per tanti anni, questa presentazione non voglio dire che mi abbia cambiato la vita, ma mi ha dato pace, perché anche allora nessuna istituzione ha mai riconosciuto che io a Caccamo avevo fatto una cosa buona. Cioè io ho mandato un esposto, un memoriale alla Commissione Antimafia, un memoriale lesivo perché c’erano anche i nomi dei referenti politici, dei mafiosi, fra cui il padre del Presidente Mattarella, non mi hanno mai neanche risposto per dirmi “abbiamo ricevuto”. Lo stesso partito comunista di Palermo mi trattava così: “ma sì, sei una cara ragazza, ma che vuoi… Stai perdendo tempo a Caccamo. C’era solo Pio La Torre che mi incitava e mi diceva “brava… brava…”. Allora, per me il fatto che un procuratore nazionale antimafia voglia presentare la mia storia e la presenti in modo positivo mi ha riconciliato
con le istituzioni. E’ una cosa per me di un’importanza immensa, perché finché nelle istituzioni abbiamo persone corrotte e colluse, non si avanza…”.